Cesare Pitto e Loredana Farina (Università della Calabria) –
Le feste paesane, quando non sono strettamente collegate al Santo patrono, sono ormai strutturate tendenzialmente come espressioni di una forte spinta al consumo e alla celebrazione spettacolare dell’evento.
Tutto il sistema della calendarizzazione delle festività religiose e mondane, attualmente, è inteso come offerta turistica di supporto all’economia locale. In particolare, in tutte le aree rurali, nei centri minori e in certi casi anche nelle realtà urbane più importanti, questi eventi sono stati «spostati» nella stagione estiva per approfittare del movimento turistico e del ritorno degli emigranti, che rientrano al paese per trascorrere le ferie.
La realtà che è stata presa in considerazione, è costituita da un centro locale minore della Calabria, la città di Bisignano, che è rappresentativa di una particolarità storica di grande interesse, in quanto è sede, insieme a Cosenza, di Vescovato e fu proclamata «città» da Carlo V, nel 1525.
La città è suddivisa in otto rioni edificati sui dossi collinari che, dipartendo da un centro, l’antica collina Castello, formano otto contrade che suggeriscono una «forma urbis» mitologica e danno luogo all’attuale divisione in rioni: Piano, Piazza, S. Simone, Giudecca, Cittadella Coscinale, S. Croce, S. Zaccaria, S. Pietro.
Su quest’impianto si è manifestata, negli ultimi anni, l’esigenza della rinascita del centro locale minore, che è specifica di paesi come l’Italia, ivi comprese, in questo periodo storico, realtà come le aree del Mezzogiorno.
Il fenomeno è legato ai processi di terziarizzazione turistica, ma anche alla ricollocazione delle rimesse degli emigranti, che agiscono sulle aree urbane come livellatore degli squilibri e spingono a processi di pianificazione sociale ed economica del territorio urbano.
Ha fatto notare al proposito Roberto Mainardi:
“Una politica di decentramento che voglia rimediare a questa situazione [di concentrazione delle attività economiche nei centri maggiori] dovrà determinare in quanti centri dovrebbe ripartirsi la popolazione e le industrie, la loro dimensione, la loro struttura industriale e la loro localizzazione.” (Mainardi, 1969, p. V)
Inoltre, in fase iniziale, i volani di questa trasformazione sono le attività artigiane, la trasformazione dei prodotti agricoli, le colture specializzate e il terziario turistico.
Proprio in questo contesto si situa la promozione, in Bisignano, di due eventi festivi che, pur avendo pochi legami apparenti con una consolidata tradizione locale – salvo alcuni riferimenti generici -, ricostruiscono invece una tradizione mitica e prevalentemente inventata.
Si tratta delle manifestazioni denominate La Serenata e Il Palio del Principe, promosse e curate da un’Associazione culturale locale appositamente costituita per organizzare tali eventi.
Il Palio si svolge normalmente tra la penultima e l’ultima domenica di giugno. Ha come epoca di riferimento il periodo medioevale e la sua principale rappresentazione è costituita da una giostra, dove i Rioni competono fra loro.
La prima edizione de Il Palio è stata realizzata piuttosto recentemente, nell’anno 1991.
Il torneo cavalleresco si svolge tra gli otto quartieri storici della città, dopo la sfilata del corteo in costume, che è caratterizzata dalla partecipazione degli sbandieratori, e ha luogo nell’area dello stadio di calcio della cittadina.
La Serenata è una manifestazione popolare che si svolge da dieci anni, in occasione della festa di San Valentino (14 febbraio), nei vicoli e nei quartieri del vecchio borgo della città di Bisignano, luoghi sui quali aleggia la presenza mitica dei Sanseverino.
La manifestazione, ideata e progettata nel 1992, successivamente realizzata – per la prima volta -, nel 1994, coniuga la duplice esigenza di rendere omaggio alla bottega di liuteria dei Maestri Nicola e Vincenzo De Bonis, che da più di due secoli costruiscono strumenti musicali a corda, e di rinnovare la tradizionale serenata che, in altri tempi, i giovani rivolgevano alle loro innamorate per fare profferte d’amore.
L’enorme successo di pubblico della prima edizione, ha dato lo slancio alle successive programmazioni.
La Serenata, infatti, strutturata e organizzata con il coinvolgimento totale dei Rioni storici della città, rappresenta l’espressione del quartiere, del vicolo, dell’addobbo del balcone, in un suggestivo itinerario della memoria.
La Serenata tratteggia, allo stesso tempo, la rivalutazione delle tradizioni popolari, la sensibilizzazione dei giovani al rispetto della tradizione storica, la promozione dei nuovi interessi, facendo rivivere atmosfere perdute, suggestioni antiche che si coniugano con le alchimie magiche dell’innamoramento.
“Questa manifestazione è un concorso canoro dove partecipano 8 gruppi: ognuno per ogni quartiere del paese. La gara si svolge per le vie di Bisignano e consiste nell’esibizione di un gruppo per volta nel proprio quartiere di provenienza. Ogni gruppo dovrà suonare tre canzoni, e durante l’esibizione della seconda, una ragazza si affaccia dal balcone sotto il quale si svolge la gara. Alla fine della serata una giuria premia l’esibizione migliore facendo risuonare i pezzi vincenti.”
L’interesse su queste due manifestazioni scaturisce dall’analisi di alcuni aspetti emergenti della comunità che cercheremo di individuare in questo lavoro per verificare se queste iniziative possano rappresentare un primo approccio per un progetto di configurazione di una nuova identità e di nuovi processi di sviluppo.
Il primo elemento è rappresentato dalla constatazione che si tratta di «feste inventate».
La spiegazione di che cosa s’intenda per «feste inventate» deve essere ricercata nel processo che ha dato luogo a questi eventi.
Inizialmente, non rintracciando un riscontro tradizionale nelle due manifestazioni – ma soltanto un’organizzazione che risale a pochi anni addietro -, si potrebbe pensare che tutta l’organizzazione degli eventi sia stata costruita su interessi locali e su elementi competitivi che possono trasformare la festa in un gioco agonistico. I risultati ritrovano, poi, giustificazioni storiche e sociologiche da interpretare in analoghi avvenimenti del passato.
«Feste inventate» sono anche quelle feste che operativamente sono state «trovate» nell’incrociarsi fra diversi interessi locali con le capacità operative di rendere tali intenti profittevoli: così il termine inventato trova un suo riscontro semantico nel termine latino invenire che sta per trovare, incontrare, scoprire.
In qualche modo, la duplicità del termine «inventato» rende completo il processo che ha portato alla costituzione di queste due iniziative.
Tutto ciò mette in luce una forte attenzione al contenuto di gioco, presente nei due eventi, che ci riconduce all’attenzione che già Furio Jesi poneva nel rapporto gioco/festa.
La festa si propone, dunque, come un’azione della collettività che si apre all’accettazione dell’intimo, alla disposizione e alla comprensione del diverso con cui può contendere, ma che è disposta ad accreditare, o quantomeno a considerare.
“In stato festivo è possibile vedere la collettività quale essa intimamente è. Questa permeabilità gnoseologica della linea di demarcazione appare a Rousseau auspicabile sia dal punto di vista del puro conoscere – è possibile sapere cosa sia una data collettività -, sia dal punto di vista politico – è possibile stabilire rapporti di conoscenza armonica fra le collettività, rapporti dai quali procedono armonie di coesistenza che non sacrificano le reciproche e autonome peculiarità, e pure attuano una loro compenetrazione. L’altro diviene permeabile all’io poiché lo conosce meglio, l’io diviene permeabile all’altro poiché ne tocca gnoseologicamente il centro e dunque ne subisce l’influsso per contatto diretto.” (Jesi, 1977, p. 179)
Tale processo di conoscenza, agito nelle «armonie di coesistenza che non sacrificano le reciproche e autonome peculiarità», produce il gioco, che altro non è se non lo sforzo di inventare un terreno di confronto virtuale, dove le peculiarità diventano possibilità di competizione e la festa è iperbole della competizione stessa, stato traslato di coscienza, dove si esprime l’attenzione per le diversità.
Coniugando questo pensiero con l’idea di Jesi si osserva, appunto, che
“la festa come occasione di visione – come occasione di vedere, non di essere veduti – è un concetto per il quale gli storici delle religioni, gli etnografi e i folkloristi hanno accumulato una quantità enorme di materiali. In termini paradigmatici gli storici delle religioni hanno individuato in un gran numero di feste l’esibizione o il disgelarsi di un είδωλον. Il vedere come fatto festivo e anzi come essenza della festa è rimasto tuttavia in second’ordine.” (Jesi, 1977, p. 179)
Nel nostro contesto, questo processo di rimanere in second’ordine ha favorito l’acquisizione di elementi esterni e la loro sperimentazione nell’amministrazione dell’evento, che si è rivelato, poi, crescita dei processi organizzativi e della codificazione dei caratteri della festa.
Così, gli elementi che costituiscono il divenire della festa, inserita in un ambiente contemporaneo specifico, si compongono come processi, dove l’oggetto s’estranea dall’oggi, a cui appartiene, e si permea della spettacolarità della festa, che trasforma i partecipanti – gli spettatori – in attori, come sosteneva Jean-Jacques Rousseau:
“Ma, infine, quali saranno gli oggetti di questi spettacoli? Niente, se si vuole … Piantate nel centro di una piazza un palo con una ghirlanda di fiori, radunate il popolo e avrete una festa. Fate ancora di più, fate degli spettatori uno spettacolo: fateli diventare attori anch’essi.” (Jesi, 1977, p. 178)
Questo processo di coinvolgimento della comunità rinforza la possibilità (ma si potrebbe dire la necessità) di una costruzione del momento festivo, che partendo da un nucleo interno si propaga verso l’esterno per diventare patrimonio e aspettativa di tutto il gruppo e, quando si consolida, diventa richiamo verso quel mondo esterno che è incondizionatamente attirato dalla festa.
In questo modo nasce la tradizione e la continuità della celebrazione festiva che non sarà più casuale, ma avrà date e scadenze periodiche.
La festa si pone come elemento di coesione e di moralizzazione e rende ordinato il ritmo dei comportamenti sociali. Mentre le azioni del quotidiano si sviluppano necessariamente con costrizioni e comandi che portano a forme di soggezione. Anche nelle società improntate a democrazia e solidarietà, la festa compensa quest’esercizio di dipendenza con momenti di piacere e di spensieratezza, che, però, non può disperdersi nell’anomia o nella pratica dell’abuso.
La festa trasforma la sospensione delle regole in attesa del gioco, disciplinato da norme che esaltano la competizione, premiano il primato, ma non umiliano chi perde, proponendolo per altra e futura competizione.
Questo sistema di giochi, che unisce mondanità ed eticità, diventa regola morale che va sotto il nome d’intrattenimento, spettacolo e, in ultima analisi, sport.
La sua proposizione si conforma sostanzialmente a quel proposito, che nelle parole di Rousseau fanno della festa «un accadimento conoscibile e politicamente auspicabile, il quale coinvolge una collettività» (Jesi, 1977, p. 178).
Il gioco si costruisce, così, in un luogo protetto e parzialmente definito:
“Dietro la casa c’è un viale coperto che diviene l’arengo dei giochi. I camerieri e gli altri servitori si radunano là nelle domeniche d’estate, dopo la predica, per giocarsi in varie partite non del denaro, questo non è tollerato, e neppure del vino, che già viene offerto, ma una posta concessa dalla liberalità dei padroni. Questa posta è sempre un oggettino o un capo di abbigliamento che può loro servire. Il numero dei giochi è proporzionale al valore della posta: quando la posta ha una certa importanza, per esempio delle fibbie d’argento, un colletto, delle calze di seta, un cappello fine, o qualcosa di simile, viene generalmente disputata nel corso di parecchie partite. Non ci si limita a un solo tipo di gioco; i giochi variano, in modo che il più abile in uno di essi non si prenda tutte le poste, ed affinché tutti divengano più destri e forti, grazie a molteplici esercizi. Si gareggia ad afferrare in corsa un oggetto posto all’estremità del viale, a lanciare una pietra, a portare un peso, a tirare al bersaglio. Alla maggior parte di questi giochi si aggiunge un po’ di cerimonia per prolungarli e renderli divertenti.”(Jesi, 1977, p. 206)
Questa esigenza si ritrova anche nella contemporaneità dei nostri giochi, salvo che la posta – pur sempre elargita dal padrone o dallo Stato nella sua magnanimità – è diventata talmente alta ed appetitosa che ha cancellato quei valori di moralità che il gioco rappresentava per la collettività. Esso si è trasformato in un elemento di disgregazione, una ragione sociale del dominio e una forma del sistema economico dell’attuale società, basata sui consumi e sull’esibizione dei feticci, la società dello spettacolo, in senso economico e sociale.
Ma, nella fattispecie della comunità di Bisignano, che noi stiamo prendendo in considerazione – in piena elaborazione dell’apocalisse culturale del Mezzogiorno, in transizione verso un possibile e auspicabile sviluppo europeo -, forse questi elementi dell’accadimento auspicabile sono presenti e sembrano essere espressione del nuovo bisogno di «fare festa», organizzata dall’istituzione preposta ai momenti della riunione festiva. Questo processo è oggi rappresentato dall’Assessorato alla Cultura e allo Spettacolo del Comune.
Il clima della festa, se ha bisogno di giustificazioni formali, come la tradizione e la specialità del momento, molte volte intesa come sacralità, di fatto esprime un bisogno civile di conoscibilità dei rapporti umani della collettività.
In questo senso le feste popolari, anche le più attuali e consumistiche, assumono la prospettiva che nella nostra cultura descrive K. Kerenyi come una sospensione del quotidiano, dove « simili atti si compongono solo festivamente: solo su di un piano di esistenza diversa da quello quotidiano».(KERÉNYI, 1950, p. 48)
Se torniamo, forti di quest’analisi, alle due azioni festive di Bisignano, possiamo, forse, inquadrarle in una serie di coincidenze che non le rendono casuali, o puramente consumistiche, ma dettate, piuttosto, da un bisogno del collettivo di riappropriarsi dello spazio della comunità in un tempo sospeso, che sia effettivamente il proprio tempo, e non un tempo alienato dal sistema sociale di produzione.
Per ciò stesso, il tempo delle due feste si sviluppa in senso contrario rispetto alla corrente che ha trasportato le feste patronali, i giochi di società – persino certe manifestazioni sportive – verso, o dentro, i periodi delle ferie, e quindi l’estate, le festività natalizie e quelle pasquali.
Questo processo è stato determinato da due fenomeni: l’incentivazione del turismo, sia come esito, sia come attrattiva, e la possibile presenza di emigranti in visita. La festa, allora, e – nella festa – la competizione e il gioco acquistano una maggiore importanza: diventano la ragione stessa della festa.
Ma, nelle due manifestazioni di Bisignano, le feste non si situano in tali periodi, che per una parte almeno della comunità si qualificherebbero come tempo di lavoro. Piuttosto cercano il tempo sospeso del non quotidiano che si rivolge alla propria comunità. Infatti, si svolgono nei mesi di febbraio e di giugno, prima e fuori dai periodi festivi che fanno tradizionale riferimento alle ferie dei cittadini, degli emigranti e degli stranieri. Anzi, nel caso de La Serenata, che si svolge a Febbraio, non «nelle domeniche d’estate, dopo la predica» – come sarebbe piaciuto a Rousseau -, la situazione ambientale, decisamente invernale, rende più specifica l’appartenenza al paese, anche per chi viene da fuori ad assistere ad una competizione che altrimenti, nella realtà, avrebbe dovuto avere una dimensione «intima».
Ancora un fattore di differenza che queste feste hanno con le sagre, le fiere e le feste patronali, è dato dall’elemento della competizione che favorisce, in ciascuno dei due eventi, la partecipazione al gioco, sia pure inteso in senso moderno, quale momento di identificazione nella figura del competitore, come proprio rappresentante e come testimone dei valori della contrada e del gruppo rispetto alla collettività.
Gli spettatori parteggiano per il rappresentante del proprio Rione e si pongono, rispetto agli altri, come le tifoserie calcistiche, con espressioni di caloroso incitamento per il proprio «campione».
Analizziamo nello specifico alcuni aspetti delle due feste, i criteri adottati e perfezionati in questi anni, nonché il gradimento della popolazione e l’appropriazione delle regole che sono diventate elementi della tradizione e delle folk-ways locali.
Abbiamo già detto, come Bisignano sia costruita sulle colline dell’area Presilana, sulla destra del fiume Crati, con una divisione in rioni disposti lungo i rilievi collinari.
Questa posizione influisce sullo svolgimento dei due eventi, accomunati dall’organizzazione, che è unica, e fa capo all’associazione di Bisignano Centro Studi e Spettacoli sulle Tradizioni Popolari «Il Palio».
La Serenata di Bisignano che, ricordiamo, si svolge in concomitanza della festa di S. Valentino – 14 febbraio -, subisce la tradizione consumistica contemporanea che l’ha trasformata in una festività commerciale, dedicata «in modo interessato» agli innamorati, e sostenuta dalle grandi holding dolciarie, della moda e dei cosmetici.
Se la ricorrenza festiva, però, non è riuscita a sfuggire ai richiami della pubblicità e delle sollecitazioni dei mass-media, è anche vero che la manifestazione di Bisignano, strutturata in un grande gioco canoro fra i quartieri, è patrimonio totale dei rioni del paese, dove il successo è affidato alla competitività dei contendenti e al sostegno di ciascuna comunità di quartiere.
Già dal Regolamento del concorso musicale si possono individuare le particolarità di questa competizione che è rivolta esclusivamente alla partecipazione corale della comunità.
Infatti, si può leggere al punto 9) del Regolamento che: “Al quartiere vincitore che partecipa attivamente alla manifestazione, sarà assegnato un premio in danaro, stabilito annualmente dal Comitato organizzatore, più trofeo”
ma, subito dopo, al punto 11) il Regolamento avverte e specifica: “Nell’eventualità di vittoria di un quartiere che non partecipa attivamente alla manifestazione, il premio messo in palio per il quartiere vincitore, di cui al punto 9), sarà devoluto equamente fra i quartieri partecipanti attivamente al concorso (per quartiere partecipante attivamente alla manifestazione si intende: regolare iscrizione al concorso del Gruppo musicale, della ragazza e del balcone, nonché la fattiva organizzazione del proprio quartiere per il buon fine della manifestazione)”
Il percorso attraverso i quartieri del paese viene sottolineato dalle soste sotto i balconi designati dove vengono presentate le canzoni con una suggestiva coreografia. Nella tradizione, infatti, la serenata costituiva un rito di passaggio al quale partecipavano tutti i componenti della collettività. Il rapporto sentimentale, allora, dalla dimensione dell’intimo si estendeva al dominio pubblico trasferendo le attese degli innamorati dall’ambito familiare, all’intera comunità.
L’esibizione canora prevede un’organizzazione semplice. Sono ammessi un massimo di dieci elementi per gruppo di esecutori, che devono suonare preferibilmente strumenti a corda – come mandola, mandolino, violino e chitarra – e sono consentiti anche fisarmonica, organetto, armonica a bocca o altri strumenti tradizionali. In particolare, viene attribuita grande importanza alla tradizione della città di Bisignano nell’arte della liuteria. Infatti, il concorso, dedicato ai Maestri liutai Nicola e Vincenzo De Bonis, ha favorito il rilancio della chitarra battiente nella versione barocca che è strumento privilegiato per l’accompagnamento dei madrigali.
A Bisignano, nella bottega di Vincenzo De Bonis, la chitarra battente è prodotta regolarmente insieme ad altri strumenti a corda. È uno strumento di antica liuteria d’arte, nello stile della chitarra barocca, costruita con preciso riferimento alle forme tramandate ai discendenti della famiglia, fin dal Settecento, che ancor oggi riprendono i disegni e le stampe d’epoca.(Ricci e Tucci, 1995)
Le musiche e i testi delle canzoni eseguiti durante la manifestazione possono essere inediti oppure recuperati nella tradizione calabrese o napoletana. Dopo l’esecuzione del secondo brano, la ragazza si affaccerà dal balcone e – citiamo sempre dal Regolamento: “Dovrà indossare regolare camicia da notte e potrà anche usare i tradizionali scialli di copertura ed oggetti come lumi, candele, fiori, ecc.”
Una giuria, designata dal comitato organizzatore, valuta, con l’attribuzione di un punteggio, le esibizioni, e alla fine della serata tutta la festa si sposterà nell’aula comunale o nella palestra sulla collina Castello, dove la giuria attribuirà i premi per l’esibizione migliore, facendo suonare, a conclusione della serata, i pezzi vincenti.
Nel 2003 si sono celebrati i primi dieci anni della manifestazione che può essere considerata un evento ormai consolidato e inserito nella tradizione degli eventi spettacolari della Calabria. Anzi, negli ultimi anni alcuni paesi della fascia Presilana si sono organizzati per proporre in diversi periodi manifestazioni similari, anche se maggiormente sbilanciate sugli aspetti della competizione e del festival canoro.
Osserva Umile Bentivedo sul quotidiano locale “Il Domani di Cosenza e Provincia”, riportando la cronaca della manifestazione:
“La Serenata ha parlato e parla il linguaggio eterno dell’amore inquadrandosi a Bisignano nell’ambito di una grande tradizione sia colta che popolare che parte dal genere madrigalesco fino ad un’ininterrotta tradizione orale arrivata ai nostri tempi. Nel genere della serenata si sono esercitati grandissimi compositori, da Mozart a Rossini, ma a Bisignano ha mantenuto un carattere popolare rappresentandosi come l’amante che si reca sotto il balcone dell’amata accompagnato da alcuni amici con i quali ha trascorso la serata all’osteria.”(Bentivedo, 2003)
Una più attenta ricostruzione documentaria ha determinato, invece, la nascita de Il Palio del Principe, che si svolge a Bisignano dal 1991. La manifestazione recupera e rivaluta elementi della storia della città anche se non esiste, documentata, una vera e propria tradizione del palio. I tornei cavallereschi sono l’espressione di avvenimenti storici e di elementi dell’economia locale che si coniugano per dare senso di attualità all’evento. Bisignano è tradizionalmente un centro dove l’allevamento dei cavalli è stato per anni una delle colonne portanti dell’economia locale. Inoltre, dagli anni Sessanta, questo tipo di attività è stata incrementata dall’allevamento di cavalli da corsa, particolarmente adatti al trotto, che vengono addestrati in un grande allevamento insediato a valle del paese lungo il Crati.
Un’altra produzione artigiana, che costituisce una caratteristica portante di questo centro della Valle del Crati, è l’attività dei vasai. Attualmente, questa attività costituisce un settore trainante dell’economia locale con alcuni laboratori delle aziende artigiane dal successo ormai consolidato.
Le presenza degli artigiani è stata determinante per la costruzione ed elaborazione della «tradizione» che ha contribuito a promuovere Il Palio fra le manifestazioni della collettività di Bisignano. La tradizione, così, diventa la motivazione centrale che scioglie i rituali della memoria nell’elegia della festa.
Un passato mitico si ricollega ingenuamente ad un presente che recupera il senso della grandezza perduta.
Osserva Starobinski: “Questo brusco risorgere di un passato rimpianto rivela la tensione interiore sulla quale è costruita la felicità della festa. Non solo rivela che è trascorso del tempo, ma anche che sono sopraggiunti rifiuti e superamenti a segnare una distanza irreversibile fra il presente e il passato. Nel rimpianto elegiaco l’essere scopre che una parte essenziale di esso appartiene a un mondo scomparso.” (Starobinski, 1982, 152)
La memoria si concretizza nel racconto storico, ricavato dai documenti e dai trattati, riorganizzato in una cerimonialità fantastica, che serve a giustificare la proposizione di una manifestazione, dove i rituali celebrativi preparano il gioco fra i rioni, che diventano testimonianze dell’evento epocale che è stato vissuto.
Sulla falsa riga della celebrazione elegiaca si è stabilita a Bisignano una relazione tra la celebrazione festiva del gioco e l’evento storico in qualche modo felice – o considerato tale – per la comunità:
“La manifestazione del Palio del Principe è stata ripresa nella forma attuale in tempi piuttosto recenti (la prima edizione si è tenuta il 28 – 29 settembre 1991). Affonda le radici in tempi remoti, facendo risalire le sue origini almeno all’epoca dell’Imperatore Carlo V, e più precisamente alla sua visita al Principe Pietro Antonio Sanseverino ed alla Città di Bisignano nel novembre del lontano 1535.” (Falcone e Turco, 2001, pp. 5-7)
Di fatto, la possibilità di organizzare un gioco sotto forma di palio per celebrare la rinascita di Bisignano è stata pensata a tavolino alcuni anni fa quando, da parte di alcuni operatori bisignanesi, si è manifestata forte la necessità di una ripresa di coscienza della comunità. La necessità di promuovere valori sociali e culturali, oltre che religiosi, hanno mosso gli organizzatori, i volontari e gli amici della comunità nel costruire questa manifestazione. In particolare, è merito di personaggi come Francesco Falcone e Rosario Turco, che sono anche i dirigenti dell’associazione, l’aver raccontato la storia, con una accurata ricerca delle fonti – molte delle quali inedite –, di un evento importante che si riferisce al Casato principesco della famiglia Sanseverino.
Altri cultori locali sono stati indicati come coautori o iniziatori di questa manifestazione e, in qualche modo, possiamo pensare che aldilà delle polemiche, che sempre vi sono in questi casi, l’organizzazione abbia fruito dell’apporto di contributi diversi.
Infatti, ricorda il giornalista Pino Nano della RAI-Regione Calabria, nell’appendice intitolata, I corrispondenti, colonna portante di ogni redazione al lavoro in due volumi, 40 anni di RAI in Calabria. Storia della RAI in Calabria:
“Mario Guido era il nostro punto di riferimento da Bisignano, da tempo ormai immemorabile è capo ufficio stampa delle Casse Rurali della dinastia dei Caputo, e dove ha inventato il Palio e le Serenate di Bisignano, che considero una delle pagine più belle e più interessanti della riscoperta delle tradizioni popolari calabresi di questo ultimo secolo.” (Nano, 2000)
A noi importa constatare che la spinta ad un tale allestimento travalica i confini della collettività locale e viene vissuto come un fattore di crescita culturale che interessa l’intero Paese. Tutto ciò convalida allora la ricerca delle sue lontane radici come giustificazione storica alla progettazione dell’evento.
Si definisce in questo modo il compito che gli intellettuali, anche sul piano locale, hanno avuto nell’influenzare il campo e nel determinare un processo d’integrazione socio-culturale che spinge verso una riappropriazione del proprio spazio identitario, come momento mitico per tratteggiare una storia che sia elegia del proprio passato. Si è contribuito, così al recupero di un archivio del Mediterraneo dal quale sono stati tratti gli elementi che oggi giustificano le regole della festa e del gioco. Questo appare evidente nel capitolo su I Rioni della Guida al Palio del Principe:
“Compaiono così i figuli, i fabres, gli auri fabres, i molendinarii, i justitiarii, i judices.
Tutto ciò fa pensare a delle strutture associative simile alle Corporazioni presenti in altre città d’Italia. Per Bisignano sono documentate invece, sin dal XIII secolo, Confraternite di laici, quali quella del Santissimo Sacramento nel Rione di San Zaccaria, o a quella della Anime del Purgatorio nel Rione Piazza, con finalità prevalentemente culturali, ma che potrebbero anche aver avuto lo scopo di associare fedeli laici secondo le loro attività lavorative. Si ritrovano i figuli o pignatari nel Rione di Santa Croce; i fabres i gli auri fabres nel Rione di Piano, i judices ed justitiarii nel Rione di San Zaccaria, i sartores o tessitori e gli speziali nel Rione Piazza.” (Falcone e Turco, 2001, p. 9)
Il corteo storico che precede Il Palio è costituito da una sfilata in costume medievale che simula la corte dei Sanseverino e si snoda per le vie della città. Il corteo è annunciato da un giullare che precede i figuranti che rappresentano il principe e la sua consorte, seguito da uno stuolo di cortigiani e cavalieri in eleganti abiti d’epoca. Seguono a questa processione le esibizioni degli sbandieratori e la simulazione della donazione della chinea bianca, cavalla o giumenta allevata in Bisignano per il traino di cocchi e carrozze.
“Il cavallo bianco simboleggiava il comando principesco e non a caso, oggi, il premio destinato al vincitore del torneo del Palio di Bisignano, consiste in un drappo di stoffa preziosa su cui è ritratta l’immagine di una chinea bianca e di una spada, simbolo del potere e della vittoria da parte del cavaliere e dei suoi beniamini.” (De Luca, 1999, p. 167)
In senso letterale, con il termine chinea era indicata generalmente la mula bianca (o cavallo ambasciatore delle Asturie) che per tradizione i re di Spagna presentavano al papa ogni anno in forma solenne per il pagamento del censo per il Regno di Napoli.
La particolarità di questo cavallo era quella di essere stato addestrato ad inginocchiarsi convenientemente davanti al Pontefice, mentre gli offriva la somma di danaro contenuta in un vaso d’argento fissato alla sella, comportandosi così, da solerte ambasciatore.(Cfr. Moli Frigola, parte III°). Più recentemente, ritroviamo nel canto secondo del componimento poetico di Alessandro Tassoni, La secchia rapita, un riferimento a questa particolare cavalcatura:
“Pallade sdegnosetta e fiera in volto
venía su una chinea di Bisignano,
succinta a mezza gamba, in un raccolto
abito mezzo greco e mezzo ispano:
parte il crine annodato e parte sciolto
portava, e ne la treccia a destra mano
un mazzo d’aironi a la bizzarra,
e legata a l’arcion la scimitarra.”
Il corteo storico, predisposto per la manifestazione de Il Palio del Principe, è così descritto da Rosario Turco e Francesco Falcone, che lo ricostruiscono sulla base di una lettura d’archivio, riproponendolo ai fini dell’ambientazione contemporanea della festa. “Anche il Corteo trova origine e giustificazione nella storia della Città sede del Principato. Si possono avanzare ipotesi sullo svolgimento della vita di corte dei Sanseverino di Bisignano, in particolare sulle cerimonie esterne che coinvolgevano non solo i Principi regnanti, ma spesso anche i Nobili e gli Onorati, oltre che il Popolo. Tra la fine del 1600 e gli inizi del 1700 un documento del Notaio Fabrizio Reperti, dell’anno 1704, ci descrive la presa di possesso del Principato da parte di Don Giuseppe Leopoldo Sanseverino il 7 aprile di quell’anno.
Il principe Don Giuseppe Leopoldo, figlio di Carlo Maria Sanseverino, il 7 aprile 1704, accompagnato dalla consorte, la Principessa Donna Stefania Pignatelli, faceva il suo solenne ingresso nella sede del Principato. I festeggiamenti solenni furono, in quella occasione, organizzati dal Magnifico Don Giuseppe Rogliano, Sindaco del seggio degli Nobili, e dal Magnifico Don Antonio Montalto, Sindaco del seggio degli Onorati, dagli Eletti dell’uno e dell’altro ceto della città, e da molti gentiluomini.
L’incontro fra il Principe e i cittadini avvenne presso il «ponte e porta della Città del Quartiere detto Piano, avanti la quale porta lo stavano attendendo, assisi in due sgabelloni essi del Reggimento, cioè essi del primo sedile a man dritta ed a man sinistra i secondi»
Il Principe, ricevute le chiavi della Città su un vassoio d’argento, diede ordine che si aprisse la porta, dopo di che baciò l’immagine del Crocefisso che gli veniva presentata da Don Muzio Martini, Canonico Cantore della cattedrale della Città, in qualità di delegato speciale di monsignor Vescovo. Il Principe e la Principessa, stando sotto un baldacchino portato da sei Eletti del primo Seggio, furono accompagnati in corteo verso la cattedrale dalle confraternite, dai sacerdoti del Capitolo e da numeroso pubblico. In cattedrale ebbe luogo la solenne professione di Fede e la cerimonia del giuramento con il bacio del libro dei Vangeli, sempre alla presenza del canonico delegato.
[…]
E’ difficile non pensare che simili manifestazioni di potere socio-politico non fossero accompagnate da giostre e tornei cavallereschi. In modo particolare i Palii, dalla voce Pallium, termine latino col quale si designava il drappo assegnato in premio al vincitore, davano grande risalto a queste competizioni e manifestazioni.” (Falcone e Turco, 2001, pp.18-19)
La cerimonia prende la forma di una recitazione figurativa e processionale che descrive un momento celebrativo del passato, e riscrive, in termini rituali, un evento che attraverso la scrittura semplificata, trasforma di fatto gli spettatori in attori. Essi interpretano azioni rituali che rievocano le gesta dei personaggi storici – nella loro staticità ripetitiva – con una rilettura storica formalizzata.
Il Palio rappresenta, oltre che il giusto premio per il vincitore, anche un termine di riferimento ad analoghe feste e giochi di maggior fama. In esso si ripetono con assidua serietà, o anche con ironia, i rituali di competizione. Ai campioni viene offerto un premio (o un guiderdone riconosciuto incondizionatamente dalla comunità) ed il suo nome viene iscritto nell’Albo d’Oro del Palio che il Centro Studi e Spettacoli sulle Tradizioni Popolari custodisce gelosamente nella panoplia delle gesta della comunità.
Analizziamo ora la struttura e lo svolgimento della Giostra. La Giostra è la sintesi di altre manifestazioni cavalleresche che si tengono tradizionalmente in varie località italiane. Quella di Bisignano, in particolare, assomma una gara di abilità a cavallo – nell’infilare il maggior numero di anelli di diverse dimensioni, posti su quattro torri – con la capacità di colpire e far girare il saracino posto alla fine del percorso.
La struttura della Giostra ha una particolare disposizione obbligata per l’adattamento della manifestazione alla specifica conformazione dello stadio locale. Infatti, il percorso della giostra è definito da due campi di gara denominati Campo del Sole e Campo del Muro.
[i] Tratto da «Regolamento Concorsuale Musicale “LA SERENATA” », Comitato organizzatore «Il Palio» Centro Studi e Spettacoli sulle Tradizioni Popolari, Bisignano
[ii] Osserva Don Luigi Falcone, attuale presidente del Centro Studi e Spettacoli sulle Tradizioni Popolari «Il Palio», che questa grande e nobile famiglia fu costantemente legata «ad interessi complessi e stimolanti per tutto ciò che riguarda l’uomo in tutte le sue espressioni vitali, sia materiali che spirituali».
A questo proposito «l’impegno del Palio costituisce oggi il prezioso messaggio della nostra attenzione ai giovani e allo sviluppo del senso civico che si fonda sulla riscoperta e sulla proposta dei contenuti della nostra storia, spesso purtroppo, forse anche volutamente, dimenticata». Estratto da Luigi Falcone, Presentazione (Falcone e Turco 2001, p 2).
[iii] L’allevamento della chinea bianca ha storicamente origini, in Bisignano, dagli allevamenti del Principe Pietro Antonio e suo figlio Nicolò Bernardino Sanseverino. La cavalla bianca era ammirata e preferita dalla Corte di Napoli e veniva annualmente donata al Pontefice per il tiro del cocchio papale. Cfr. Alberto De Luca, 1999, pp. 162-168.
Il Palio, strutturato come gioco pubblico, è stato inventato all’inizio degli anni ’90 e sintetizza il bisogno di recuperare e rivalutare la storia e la cultura della città di Bisignano alla fine di un periodo di decadenza e di dimenticanza.
Così, il lavoro d’interpretazione storica del passato matura anche nella organizzazione dei giochi e diviene il motore delle manifestazioni.
I Palii diventarono un obbligo per i Principi di tutte le corti italiane – specialmente di quelli amanti dei cavalli e del lusso -, fin dal 1400. La partecipazione e la contesa sviluppata nella competizione, erano indispensabili per costruire l’immagine pubblica dell’evento.
Il cavallo da corsa assumeva una nuova importanza, quanto quello da parata, perché la sua attitudine alla velocità poteva dare al Rione, di cui portava le insegne, il successo sperato. Nello stesso tempo, il nuovo Principe riusciva a consolidare il suo potere attraverso la bellezza e il lusso.
“Il Torneo, che all’inizio mantiene ancora forti legami con la pratica guerresca vera e propria, consistente generalmente in uno scontro tra due schiere di cavalieri, con tanto di vessilliferissillieri pratica guerresca vera e propria, consistente genralmente in uno scontro tra due schiei e scudieri al seguito, conserva per lungo tempo questa immagine tradizionale.
La Giostra, che col passare del tempo acquisterà maggiore popolarità e che verrà sempre più regolamentata, consisteva invece nel far combattere coppie di cavalieri prima dello scontro delle due schiere.”(Falcone e Turco, 2001, p. 20). Dal Regolamento si evincono le norme che ordinano in modo preciso e puntuale lo svolgimento dell’evento in modo che l’andamento della competizione sia «contesa» ma non caotica e disordinata, e perciò stesso ingiusta.
La responsabilità del rispetto delle regole è garantita dall’elezione di un Capitano di Rione che durante l’anno rappresenta il punto di riferimento per gli organizzatori del Centro Studi e Spettacoli sulle Tradizioni Popolari e per gli abitanti del Rione.
Ogni Rione, poi, sceglie il proprio Cavaliere a cui è affidata la speranza di successo nella contesa del Palio, e partecipa con un solo binomio cavaliere/cavallo, che non può essere scisso in nessun caso. È fatto assoluto divieto di arrecar danno all’animale con l’uso di frustini o bastoni ed è consentito solo l’uso di speroni regolamentari (tondi tagliati)
“I Caalieri degli otto Rioni partecipanti, in lizza fra loro per contendersi Il Palio, dopo regolare sorteggio, effettuato da apposita giuria che soprintende a tutta la gara, scendono in campo due per volta e, dopo il via, percorrono a spron battuto un percorso già segnalato, a forma di «L», infilando con la propria lancia anelli di varie dimensioni, fissati ad otto torri, ed ai quali è attribuito, per regolamento, un determinato punteggio.
Alla fine del percorso obbligato i Cavalieri devono colpire lo scudo del Saracino, facendolo girare sui se stesso. Le varie sfide fra i Rioni avvengono secondo il criterio dell’eliminazione diretta a doppio turno e si svolgono alternativamente sul Campo del Sole e sul Campo del Muro. Sono previste varie penalità in caso di errore nel cavaliere diversamente dallo spron battuto, o nel caso in cui si impugna la lancia diversamente da come previsto dal regolamento, e cioè «mano dalla parte sottostante l’impugnatura e manico sotto l’ascella».
Nel caso in cui il Cavaliere durante la corsa dovesse perdere la lancia, non viene aggiudicato nessun punteggio.” (Falcone e Turco, 2001, p. 21)
La descrizione di questi due eventi festivi rende necessaria la verifica del meccanismo complesso che produce la macchina antropologica delle feste inventate. Il meccanismo delle feste pacifiche si esprime come necessità di un’esperienza collettiva che deve impedire che il momento della pace, della gioia e della malinconia diventino un’esperienza collettiva non solo pacifica ma in qualche senso lieta. L’essere lieti non dipende dalla ricorrenza (per esempio la commemorazione dei defunti), ma dalla sospensione del quotidiano e, nella nostra società, dalla sospensione dell’impegno del lavoro.
In questo senso le feste civili ispirate al modello rousseauiano si struttureranno come emblemi di un dover essere collettivo. Infatti, l’esperienza festiva si pone alla collettività come modello per rifondare l’ordine e la regola dei costumi. La moderazione permette, cioè, la trasgressione dal tempo ordinario, ma consumato in un clima che non li renda «indegni della libertà».
In questo senso, se osserviamo il recente passato della comunità di Bisignano, possiamo intravedere una tradizione di giochi e feste che portavano ad una trasgressione ripetuta e ad una competitività che poteva anche essere considerata ai margini dell’ordine pubblico.
Non si parla qui della tradizione irrispettosa e trasgressiva del Carnevale nella tradizione popolare, ma piuttosto di quei giochi agonistici che prendevano forma pubblica intorno alle feste religiose. E prenderemo in considerazione, in particolare, un gioco che più di altri ha posto la competizione e l’azzardo come elemento di sfida fra gruppi e quartieri della città di Bisignano. Si tratta del gioco della pezza ‘u casu, che si svolgeva durante il Carnevale, ma che poteva anche essere presente, come competizione a premi e scommesse, durante le fiere del bestiame.
Questo gioco, conosciuto in molti centri rurali dell’Appennino, soprattutto nelle Marche e nell’Umbria, prende il nome di ruzzola. Inizialmente era praticato dai pastori che usavano forme di formaggio anche di peso superiore ai dodici chili. In seguito, si è trasformato in gioco con rotelle di legno (ruocciole), meno gravose dal punto di vista dell’economia paesana. Il gioco si svolge su un percorso prestabilito, quasi sempre in salita, e vince chi in meno colpi arriva al traguardo.
La tecnica di gioco prevede che la fettuccia (‘u lazzu) di circa due metri, arrotolata come si fa per la trottola, venga lanciata in avanti per permettere una propulsione che faccia viaggiare la pezza di formaggio. Gli altri strumenti sono: un tutore di legno (‘u marrabbiallu) per accompagnare la corsa della pezza di formaggio e a pezza ‘u casu. Lo storico locale Rosario Curia ricorda che questo gioco era praticato in fondo al rione di Piano:
“Nei tre giorni culminanti del Carnevale, in Bisignano, con grande accanimento da parte ei partecipanti si svolge il tradizionale gioco della pezza ‘u casu, fuori l’abitato, in fondo al Rione Piano che ne conserva ab antiquo la preminenza e ne tramanda le regole da seguire.” (Curia, 1994, p. 63)
Ancora oggi il gioco si svolge nel Rione di Piano in prossimità del ponte della Petrarella. Lo spirito competitivo e il clima della sfida hanno creato, e ancor creano, anche momenti di tensione per le scommesse e per le abbondanti libagioni che fanno da contorno al gioco che è, il più delle volte, clandestino.
Un altro luogo dove si praticava il gioco della pezza ‘u casu era la località periferica di Soverano, dove si svolgeva un tempo il mercato del bestiame, con la presenza di grossisti e venditori disposti a grosse scommesse e accaniti incitamenti. La forte spinta alla competitività e la partecipazione di strada, ma anche la fama dei campioni, che vengono ancora ricordati con dei soprannomi, è stata raccontata nella tesi di Alberto De Luca, che cita queste caratteristiche:
“Il gioco della pezza ‘u casu oltre ad essere un gioco di squadra era soprattutto un gioco di abilità personale che richiedeva allenamento e concentrazione. Infatti, molto importante per il giocatore era stabilire con sufficiente anticipo l’angolo di tiro, lo stato del percorso e l’effetto da dare alla forma del formaggio.
Fra i personaggi più famosi di un tempo, campioni indiscussi del gioco della pezza ‘u casu, in Bisignano, ricordiamo: Alfonso Nicoletti detto ‘u Guappu, Michele Nicoletti detto ‘u carcararu, Gennaro Iaquinta detto ‘i gannamaria, Gaetano detto ‘u ciucciu, Francesco detto ‘u ciardullu, Alessandro Ammirata detto ‘u munachiallu. Fra i campioni più attuali, ricordiamo invece Francesco Groccia, detto ‘u carcararu, Rosario Dima detto mucinella, Giuseppe Arturi detto ‘u gattu, Mario Ripoli detto pupillu, Giuseppe Todarelli detto malagurio e Stanislao Littera detto ‘u cangu.” (De Luca, 1999, p. 128)
Questo gioco rappresentava un momento di socializzazione molto importante, ma anche una situazione che oggi definiremmo «a rischio». Nella pratica attuale, dove ancora si gioca, rappresenta un importante fattore di coesione fra coloro che vi partecipano. Infatti, rappresenta un’amalgama fra categorie di poveri e di appartenenti a classi sociali più agiate che confondono i loro ruoli sociali nell’agone della competizione.
In questo senso siamo convinti che La Serenata e Il Palio del Principe siano in qualche modo gli eredi naturali di questo gioco. L’organizzazione delle due manifestazioni, infatti, produce l’effetto di moderare i costumi con la regolamentazione civile dei comportamenti.
La preoccupazione ad ordinare (contenir) i costumi degli uomini e delle donne è una delle prerogative della festa indicata da Rousseau per consolidare lo spirito collettivo. Osserva Jean-Jacques Rousseau nella Lettera X della parte IV de «La Nouvelle Eloїse».
“L’ozio della domenica, diritto che non è quasi mai possibile sottrarre loro di andare dove vogliono quando le loro funzioni non le trattengono in casa, distruggono spesso, in un sol giorno, l’esempio e le lezioni degli altri sei. L’abitudine all’osteria, la frequentazione e le massime dei loro compagni, il commercio con donne scostumate, li perdono ben presto sia per i loro padroni, sia per loro stessi; li rendono con mille difetti incapaci del servizio e indegni della libertà.” (Jesi, 1977, p. 205)
La festa di oggi non può essere considerata la difesa da un tempo sospeso che si possa valutare come elemento primordiale fuori da qualsiasi principio razionale di convivenza civile e di epifania del tempo, cioè una sorta di abbandono delle regole e di perdita del controllo su se stessi. La presenza di ordinamenti entro cui praticare la festa all’interno di un tempo storico, rievocativo e gioioso, dove l’affermazione e il successo siano presenti, diventa visione omogenea e propone la ritualità entro cui celebrare una simbologia mitologica. Nel contesto della realtà di Bisignano la celebrazione festiva dei due eventi, che si strutturano come giochi della collettività, ci consentono di affermare che se «la festa di ieri non era nulla di simile alla festa di oggi» essa può rappresentare, però, il momento di affermazione della visione mitologica della propria identità.
Il trionfo nella competizione, sia che si tratti de La Serenata, sia che si tratti de Il Palio del Principe, diventa un’evidenza da portare con se per tutto l’anno fino al nuovo confronto e l’Albo d’Oro delle manifestazioni altro non è che la simbolizzazione del premio che esaltava il valore del campione olimpionico nell’antichità.
In conclusione, è verosimile che manifestazioni locali come quelle di Bisignano, realizzate in un periodo di predominanza dei consumi e delle esasperazioni performative degli eroi mediatici e pubblicitari, siano da considerarsi come dei profondi correttivi identitari alla rappresentazione culturale della propria comunità.
Questo è avvenuto negli ultimi anni grazie ad un processo istituzionale che ha determinato l’apocalisse culturale del paesello per entrare nel meccanismo delle regole della città. La nascita dell’insediamento, trent’anni or sono, dell’Università della Calabria, come istituzione universitaria progettata in termini di struttura di tipo residenziale legata al territorio, ha prodotto nel tessuto regionale una instabilitas loci che ha generato il consolidarsi di un nuovo ordine mondano. Ricercare nel proprio passato gli elementi della propria identità rappresenta un viaggio. Il viaggio per il singolo soggetto della piccola comunità è la rottura dell’orizzonte spaziale e culturale, come ha osservato Ernesto De Martino.
“In quanto tema culturale esplicito la fine dell’ordine mondano esistente è da considerare come un prodotto storico di varia diffusione e rilievo, e di diverso significato: un prodotto storico che la ricerca sulle apocalissi culturali ha il compito di analizzare di volta in volta nella concretezza di singole società e di particolari epoche.” (De Martino, 1977, p. 14)
In questo senso, ed a prescindere dai risultati futuri, va ricordato che intorno alla nascita de Il Palio si era manifestata una forte spinta di iniziative culturali che proponevano il coinvolgimento del territorio. Al proposito citiamo la programmazione del Parco Tecnologico e Scientifico della Calabria, promosso inizialmente dall’Ateneo calabrese. È pertanto avvenuta un’osmosi fra società disegnata sul terreno e città invisibile, che in qualche modo ha ricostruito mitologicamente la volontà implicita del «non finire». soggetti di questo processo non sono stati i paesani, ma i nuovi cittadini, non necessariamente gente del paese, o, comunque, gente del paese che era passata attraverso il rito di iniziazione dell’università.
In un certo senso la profezia sociologica secondo la quale attraverso «l’ordine della città» si perda la propria appartenenza al paese, produce un ulteriore effetto, quello che la profezia si adempie nella conquista della nuova identità culturale: una sorta di cittadinanza culturale che diventa consapevolezza dell’esserci–nel–mondo. E che ciò sia possibile può essere constatato dagli eventi che si sono succeduti a livello sociale e civile negli ultimi anni.
Se da un lato Bisignano è diventata luogo di sviluppo economico e residenziale, dall’altro dobbiamo evidenziare anche le elaborazioni e i progetti per la riappropriazione del nuovo spazio urbano: Il Piano del colore, l’istituzione del Museo Diocesano di Arte Sacra, il Progetto del Museo dell’Artigianato e del Lavoro umano ed, infine, ma non in ultimo, a seguito della santificazione di Frate Umile da Bisignano, la proposizione dal basso, del Parco Religioso di Sant’Umile.
In riferimento a quest’ultimo aspetto dell’elaborazione urbana a Bisignano, proponiamo un’ipotesi antropologica di costruzione di un itinerario dell’identità che parte proprio dai percorsi devozionali verso i valori della santità e della predicazione di Frate Umile. “L’itinerario si rivela a noi come una ricerca che non riguarda solo i devoti intenti a cercare una grazia per lenire la propria sofferenza, ma come il cammino di Sant’Umile che indica agli uomini, in un tempo ricco di distrazioni e di spaesamenti, «l’interiorità, il bisogno di un raccoglimento del cuore fra tante dispersioni ed agitazioni», come hanno scritto i dodici Vescovi della Calabria. Questo cammino, allora, può divenire una scoperta che riempie lo spirito di chi è disposto ad ascoltare e a farsi condurre a ritrovare i segni dell’uomo.
L’emulo di S. Francesco d’Assisi, intento a sostenere gli umili, ma che aveva parole di conforto anche per i Papi – sappiamo che fu consigliere spirituale di papa Gregorio XV e papa Urbano VIII – diventa un compagno di viaggio su un terreno che mostra altri panorami e altri cieli. Una ricerca devozionale può mostrare a tutti, purché il cuore sia aperto e desideroso di ricevere la sapienza che porta all’arca della salvezza, come vedeva oltre i confini del terreno frate Umile nel mistico viaggio fra i suoi contadini.
Se rileggiamo le parole che hanno scritto i dodici vescovi della Calabria riusciamo a comprendere che la «vera realizzazione non è nell’avere o nella frenesia dell’apparire, ma nell’uomo interiore, abitato da Dio».
Si materializza per tutti un sentiero che dal territorio circostante, ricco di illusioni e facili apparenze, sale verso spazi infiniti e al tempo stesso interiori, che ci portano ritrovare le nostre potenzialità e i nostri grandi valori.
Scompare la paura fisica della fatica e della disperazione delle costrizioni, mentre si riafferma la potenza dello spirito a cui tende nell’intimo il nostro sentire.
Una ricerca ed un itinerario che vi invitiamo ad intraprendere.” (Pitto, 2003)
Non a caso le feste de La Serenata e de Il Palio del Principe svoltesi nell’ultimo anno sono state dedicate al ricordo della canonizzazione di Frate Umile «Santo dell’Umiltà».
È per noi la prova della volontà di non finire, ritrovando una nuova identità in mezzo agli altri.
Questo processo di trasparenza ci sembra riesca a dar corpo alla possibilità di superare il rischio della perdita della memoria, come mette in guardia Italo Calvino ne Le città invisibili:
“Talvolta città diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro…” (Calvino, 1977, p. 37)
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