Ccish Bbum Tichitidà

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Ccish Bbum Tichitidà
È primavera. Il letargo invernale s’inchina al risveglio. Nell’aria una strana eccitazione, un’aria melliflua di elezioni e democrazia, che si accompagna alla comparsa inesorabile delle allergie. La fregola elettorale smuove ed infervora l’habitus (animus?) del politico navigato, o pseudo tale, e gli mette tosto il pepe al culo, per quanto vale. Dopo un sonno per lo più di un quadriennio la fauna politica locale, giudiziosamente stanziale, abbandona il dolce tepore del giaciglio abituale, si stropiccia gli occhietti cisposi, si scrolla di dosso artriti e ragnatele, si guarda intorno con circospezione, prende le misure e si butta nella mischia. Con fare assennato si liscia le penne, lima e cura gli artigli, sfodera il sorriso migliore e prende la parola. È ormai tenzone elettorale, è campagna aperta, è stagione di caccia. La preda se la sceglie da lontano: «chissà si m’a vutatu a vota passata, su curnutu?» La sua stretta è decisa. Il suo eloquio sciroppo e miele. Le parole s’insinuano, t’incensano, ti abbindolano. E tu lì, preso al guinzaglio, a fare il vago, a (di)sperare pur di togliertelo dalle palle e a rispondergli a mezza bocca: «…E sini c’ha tu rugnu!» La parola voto te la nascondi come una cambiale da riscuotere e nella tua zucca, intanto, a rassicurarti con convinzione: «…ca pu virimi!»

Un anno o suppergiù fa presto a passare, perciò meglio darsi da fare. Il politico nato e navigato come una trottola gira e si rigira, spande, spende, si espande nell’ego e nelle ambizioni. Le vecchie ruggini lasciano il passo alle rappacificazioni, i ritiri carbonari eguagliano i bagni di folla, tavoli, tavolate, mezze maniche, maccarruni, carbonare. La forza di persuasione delle parole non basta tuttavia, ma il politico navigato sa come far marciare a pieni giri la macchina elettorale, e non si fa certo pregare per abusare di qualsivoglia targa municipale o qualsivoglia ente locale. «…Ma quali cazzo di ideali? …Ma non lo sapete, voi esimi lettori, che bisogna chiamarlo tata a chini vi runa a mangiari

Il politico nato e navigato, una volta ammesso nella nobile cerchia dei suoi simili, ci tiene a non confondersi con la marmaglia degli altri candidati. Buoni tutti a far da comparse con il candore del parvenu e l’abito della prima comunione, ma egli è di tutt’altra pasta, stazza, di un’altra razza, e va giù liscio di amnesie e candeggina. La memoria è corta, la vita breve e “sopportabile perché non si va fino in fondo”. Passare per il vaglio del popolo sovrano ad ogni tornata-infornata elettorale a che ti serve se non ne raccogli i frutti per posizionarti aureola in testa nella schiera eletta? …Quanta lucida determinazione nel loro (arraf)fare! E non è che tutti i santi siano uguali, ma già il fatto di esserlo in qualche modo un eletto è sufficiente a non confonderti con i comuni mortali. Che differenza vuoi che faccia poi, a ra fina i ri cunti, essere di maggioranza o opposizione? …Quanta tenerezza quegli sbarbatelli lì ai nastri di partenza che ti recitano la solfa dell’importante è partecipare, poveri diavoli alla ricerca d’un ruolo nell’altrui commedia. …Non lo sanno che De Coubertin è morto e gli ideali se ne vanno a puttane? Te li vedi lì su Facebook con le loro belle facce pulite oppure nel loro bel recinto di giovani puledri democratici a far confusione tra Franco Pacenza e Peppino Impastato, gli anni ‘70 di un secolo già archiviato e gli ’10  ancora da costruire, la metafisica della liberazione & l’ontologia della comunione.

Alla quasi soglia dell’appuntamento elettorale più che di fregola si potrebbe parlare di fibrillazione, la tensione fa registrare vette altissime e gli scalatori si affannano, arrivando con il cuore in gola alla meta. E tu che cerchi a tutti i costi la novità da cavalcare, pu va a finiri che ti accontenti dei soliti ronzini. Comizi e comizianti, sigle, stemmi, parti… zioni sempre più improbabili, in un florilegio di manifesti, santini e volantini, bandiere da sbandierare, gargarismi, rutti e parole al vento. Ad un certo punto pure tu ci criri a chissu o chiru e dici:«…ma quasi quasi u vuotu!» E con quanta baldanza ti accodi alla baldoria dei vincitori, mentre con bonomia rassicuri i vinti: «sarà per la prossima volta!» Sì, perché c’è sempre una prossima volta in democrazia! La bagarre elettorale al dunque lascia il posto ai consigli comunali e la politica se ne torna in letargo con tutto il suo ciarpame.

Le facce tu continui a vederle in giro, ma si tratta solo di fantasmi, di immagini virtuali, di cartoni animati. E non c’è consultazione elettorale di altro genere o natura, soprattutto se referendaria, a svegliare l’eletta schiera consiliare, perché per il politico indigeno non esiste altro oltre la dimensione comunale. Tu te li vedi live o nella differita televisiva e li senti cinguettare, pigolare, starnazzare. Usignoli, cardilli innamorati e/o addolorati, cinciallegre e immancabile l’uccel di bosco, merli e pappagallini addestrati alla bisogna, tutti (o quasi) assiepati nella loro ariosa voliera consiliare. E ti abitui a tutto. Certo a volte volano pure gli stracci, ma sai che è tutto teatro. Le parole non le senti. Non speri nemmeno che si mettano a recitarti il rosario o qualche barzelletta. Speri nella presenza di un ornitologo, un etologo, un veterinario che ti spieghi, che ti rassicuri, che decodifichi il lor aprir bocca. Rimpiangi persino il politichese dei politici di un tempo, mentre il frullatore televisivo ti ricorda che il popolo sovrano ha già deciso (ma la Ventura ci crede o ci fa?). Cambi canale. …Meno male che c’è la televisione e l’informazione dei telegiornali! Fukushima, Lampedusa, Misurata, Islamabad, la Grecia, la Siria… non sono più nomi di una geografia lontana ma il grimaldello subdolo che usano per alimentare le tue paure. Tu, però, ti senti al sicuro nel tuo virtuoso paesello abulico e senza sale con politici di mezza o più tacche. Non ti resta che sfogarti sul web. Il tuo anonimato nasconde la tua vigliaccheria. E speri pur di cambiarle le cose, …ma se non hai nemmeno la forza di sbandierare ai quattro venti la tua piena e totale dignità di libero cittadino? Intanto, loro, te li vedi lì sempre sordi, a mulinellare gesti, non spiccicano parola, non dicono niente perché non hanno niente da dire. Cosa vuoi che ti dicano? Parlano, parlano, parlano a gesti e tu il linguaggio dei segni non l’hai mai imparato. Ti aspetteresti di tutto e inevitabilmente il tutto si conclude senza alcun effetto a sorpresa ma con il più ineffabile gesto che tu conosca: quello dell’ombrello.

Rosario Lombardo