Un tuono o un rimbombo, a modularne l’irruenza, la pioggia di pixel colorati, nel buio della notte tinteggiava in cielo linee, curve e parabole multicolor. Quasi che le incandescenze spasimassero o temessero di scagliarsi per tutto il firmamento dai visceri più segreti del serto dei sette colli. Mio padre guardava a quell’artificio con occhi già da vecchio ai miei occhi. La festa del patrono foriera di troppe novità tra giostre, bancarelle, cuculluzzi, …fauna locale, ‘i fora paisi ed emigrati di ritorno. “…E mo’ vinni jati? ‘Unn’aspittatu u cantanti?” … “E’ quasi menzannotti, i guagliuni si su’ stancati” così, premurosa, mia madre. La sfacchinata dietro ad una processione di cui non si vedeva nemmeno il santo in testa, sebbene ancora beato in verità, e la certezza che quei bipedi dalle sembianze antropomorfe non potessero che seguire il suono della banda, un po’ come nel pifferaio di Hamelin. E tutti in piedi in mezzo al viale non ancora maggiorato, stipato all’inverosimile, ad ascoltare la messa dei preti e ricevere la benedizione d’un sindaco pettoruto lardellato dalla sua fetta di tricolore. Eravamo rientrati giusto in tempo per vedere i fuochi da davanti l’uscio di casa. lI paese era lì da qualche parte aggrappato alle sue colline, mentre lentamente scivolava a valle, ancora docile e irresoluto nel deflagrare in tutte le direzioni.
Alla luce del giorno fissavo lo sbrego ‘i ra timpa a vota e spostato lo sguardo cercavo le curve della provinciale che si stagliano lungo la china. Il paese incuneato dietro la dorsale, sotto la sua opacizzata campana di vetro. Quanto tempo è passato che non faccio più quella strada per andare in paese, ora che tutte le strade non portano da nessuna parte?
Con gli anni molto sarebbe cambiato, per molti versi in peggio per altri in meglio, il centro abitato pian piano a svuotarsi di tutto, eppure i paesani non se ne sarebbero accorti che a miracolo avvenuto. Con ostinazione fedeli ai loro ricordi, alle loro tradizioni, alle loro fedeltà, lasciandole in eredità da padre in figlio come un macigno di cui non ci si può liberare.
“Ti ricordi? …Non ti ricordi? …Ma dai! Non vuoi darmi a bere che pure tu si’ natu i ghieri e camini goj?” Quando le canzoni le ascoltavi all’aradio (cit.). Teppistideisogni, homosapiens, giardinideisemplici, sabrinasalerno sgallettate, donatellamilani dimenticate e quel pupo toy boy scout, a rabboccare sogni e cuori adolescenti, con gli anni rimpiazzati da altre canzonette anzichenò, a dimostrazione che ogni generazione ha la sua musica di merda ed un repertorio cui attingere per la festa del patrono e non solo. Quando il consiglio comunale lo seguivi in diretta radio, che mia madre se ne rimaneva all’ascolto fino a tardi, e al mattino appena sveglio: “tu ti si jutu a curcari… ‘u sa’ quanti si n’hani rittu?” e raccontava. Quando l’acqua mancava come oggi, perché non tutti l’avevano in casa, …ma quante campagne elettorali a promettere e ripromettere… Quando il commercio era già in crisi, ma con l’imput di un florilegio di attività commerciali a spuntare in ogni dove. Quando l’agricoltura cercava nuove strade e s’industrializzava a spron battuto, senza riuscire a perdere il vizio del sutta patruni e patruni e sutta. Quando il festival del cemento era già in auge e il paesaggio urbano si rivelava già un ossimoro, un caravanserraglio, un cupio dissolvi senza requie, da sempre ligi alla regola delle non avere regole.
Ecco, ci risiamo! Torno sui miei passi. D’altronde non ho mai amato la retorica sui paesi, con tutte le variazioni sul tema e ridondanze del caso, come in quelle foto black & white, postate sui social, attestazione della desolazione dei luoghi e di una nostalgia d’un passato idealizzato quasi mai vissuto, mentre il restare o andarsene non è più un dilemma ma scelta obbligata, rassegnazione, privilegio, a seconda della culla in cui sei stato catapultato dalla tua maledetta /benedetta cicogna.
Vivere in campagna (termine ormai improprio se non proprio privo di significato) mi ha relegato da sempre nell’area / alea ‘i fora, il paese rimanendo il centro abitato col suo viale maggiorato e l’ammattonato sfigurato, la collina castello capitozzata e i suoi servizi assenti anzichenò e i quartieri desola(n)ti tutt’intorno. Con la tracimazione a valle evidentemente il centro abitato non è più solo quello, considerando che anche le campagne sono abitate / disabitate molto più di venticinque o cinquant’anni fa. Il paese non è più quello e tutti fanno finta di non accorgersene. L’impressione che non ci sia più un centro nevralgico, un cervello?, e il municipio, il viale o l’ufficio postale… non siano più punti di riferimento, ma enucleati dal contesto, a sé stanti, separati. In una piena logica consumistica sono stati sostituiti dal lidl e dalla cittadella mediocrati. Intendiamoci non ho mai creduto all’attaccamento plateale dei bisignanesi alla terra natia, che spesso maschera solo un interesse per la propria famiglia, il vicinato, il quartiere, il clan se non proprio la classe di appartenenza, il proprio entourage amicale professionale. Una vera comunità, una vera cittadinanza, forse non è mai esistita, forse solo esteriormente, qualche lustro fa nelle processioni ‘i ru vennari santu e du biat’ummili. Del resto si riesce “a sopravvivere rapportandosi alla vita nella stessa maniera in cui la classe capitalista riesce a prosperare, ossia abbracciando l’idea della razionalità hobbesiana che vuole il potente affermarsi sul debole al fine di soddisfare i propri bisogni e desideri.”
Cosa ce ne faremo del nostro paesello, dopo le prossime elezioni, dopo che la pandemia e/o la guerra sarà finita, dopo che i fuochi artificiali rotanti del pnrr avranno brillato nei cieli d’Italia, dopo che questi anni horribiles saranno cancellati da altre preoccupazioni, da altre grane, altre noie ed altri inciampi? Vi chiederete forse dove sta u caccavu e chi è che (ci) rimesta? (Dicesi caccavu il paiolo per la cagliata e la ricotta, da cui attingere per riempire le fuscelle.) Smetterete i panni dei meridionali ciavucchi e impenitenti alla Pino Aprile / Luciano De Crescenzo/ Mimmo Cavallo? (Dicesi ciavuccu l’acchiappanuvole, u vuccapierti, chi non se ne sta coi piedi per terra.) Oppure…
Rosario Lombardo