CARO DIARIO, SONO RITA ATRIA E LA MAFIA FA SCHIFO

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“Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita.
Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta.”
Questa l’ultima pagina di diario della diciassettenne Rita Atria, siciliana di Partanna che il 26 luglio 1992, alle 15 circa, ha preso la decisione più tragica della sua breve vita: si butta nel vuoto dal settimo piano di un palazzo a Roma. Figlia di un mafioso della locale cosca, Vito Atria, morto ammazzato in un agguato quando la figlia aveva undici anni; sorella di Nicola, seguace delle orme del padre anche nella modalità di morte, infatti anche lui muore ammazzato nel 1991. Rita, a soli diciassette anni, vuole giustizia per quei due omicidi che le hanno portato via un grande pezzo della sua famiglia, così nel 1991 inizia a collaborare con la magistratura  ed in particolare con Paolo Borsellino, allora Procuratore Capo di Marsala. Tale magistrato è stato per lei molto più che una figura istituzionale, è stato un padre, quello che l’ha presa per mano raccogliendo le sue confidenze e l’ha indirizzata verso un sentiero pulito, nel quale l’ossigeno le permetteva la vita, la vera vita. Per questa sua collaborazione fu trasferita a Roma in segreto, la capitale che diventò per lei letto di morte. La strage di via D’Amelio significò per lei ricadere nel baratro della paura, della sfiducia verso uno Stato che le aveva tolto tutto: una famiglia, perché non si è mai realmente impegnato per garantire un vero futuro pulito ai giovani come lei; un mentore, una guida, che quello stesso Stato ha ucciso con le sue connivenze e le sue mancanze. Rita viene ripudiata dalla madre, una madre che ammazzò la figlia due volte, quando la ripudiò essendo ancora in vita e quando, una volta morta, distrusse la sua lapide a martellate. Che razza di madre è? E allora ha ragione il Procuratore Gratteri, che le fiction mitizzano questo marciume, non presentando affatto la realtà che si vive in una famiglia di mafia. Codice d’onore, belle ville, figli fortunati a cui non manca niente…la mafia non è questa. Rita Atria testimonia il degrado che esiste tra quella gente, testimonia la ribellione ad un sistema chiuso in una logica del terrore e del silenzio, testimonia il desiderio di giustizia: Rita Atria è testimone di giustizia. Proprio di questi mesi è il provvedimento della Commissione Antimafia già approvato dalla Camera e in attesa di un imminente “sì” del Senato che riforma il sistema della tutela dei testimoni di giustizia differenziandoli dai collaboratori di giustizia, spesso usati erroneamente come sinonimi. Il collaboratore di giustizia è un pentito di mafia, macchiatosi di reati, che ogni giorno apre gli occhi e si commuove perché è ancora vivo e decide di affidare le sue rivelazioni ai magistrati per dormire sonni tranquilli e avere una riduzione della pena. Il testimone di giustizia è quello che vede e/o vive dal di fuori o dal di dentro la metodologia mafiosa e le pressioni asfissianti a cui sono soggette le vittime o loro stessi e pensa, intelligentemente, che il reato sia girarsi dall’altra parte, quindi denuncia. Rita, non devi avere paura che lo Stato mafioso vincerà, lo sai anche tu che non è così. Rita, quegli “scemi” che combattono saranno anche veramente scemi, perché nei momenti di scoramento li vediamo un po’ come bolle di sapone contro un muro: le bolle attaccano il muro ma inevitabilmente scoppiano. Ma tante bolle di sapone, tanta acqua e sapone, eroderanno il muro scavando al suo interno e finalmente i raggi di sole riusciranno a passare..tu sai anche questo. Era il 5 giugno del 1992, ti trovavi ad Erice, nel trapanese, il nostro giudice Borsellino faceva la sua corsa contro il tempo, e tu scrivevi un’altra pagina del tuo Caro diario…
“L’unica speranza è non arrendersi mai. Finchè giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivranno contro tutto e tutti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perchè hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”.

 

Federica Giovinco