Chini mora, mora. Chini campa, campa

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Laggiù nell’Arizona, terra di sogni e di chimere, il cielo è terso e l’orizzonte è l’altrove cui ti aggrappi. L’aria odora di pioggia e primavera inoltrata, della nafta dei tubi di scarico dei mezzi agricoli, del fumo di plastica che brucia a ra ‘mbrunata, della fuliggine dei camini in pieno inverno, della calura e dell’arsura dell’ultima estate, degli olezzi indesiderati d’una rete fognaria a ra babbulabà regalo di qualche amministrazione del passato, alle soglie delle elezioni. Là la strada si strappa e digrigna i denti, si slabbra e si eclissa. Ogni passo una buca. E quasi ti ci affezioni alle sue maledette buche, maledicendole ogni volta che la tua auto li centra in pieno o li evita per un soffio. Nonostante il suo aspetto palesemente svizzero non una motrice e rimorchio, non un’autobetoniera, non un autoveicolo fuori stazza si rifiuta di transitarvi oltre, tutti dimentichi di quel segnale di divieto di transito, ai veicoli superiori alle 9 tonnellate, che un tempo troneggiava, prima ‘i ra sagliuta, all’incrocio con la provinciale. Una strada è pur sempre una strada e non approfittarne è da fessi, anche solo per parcheggiare. Fosse pure un mastodonte in attesa, per ore, dello scarico di materiali, fosse pure in piena curva o in un incrocio, fosse pure a pochi metri da un altro intoppo, là dove gli assetati trovano ristoro e stravaccati bivaccano a tutte le ore. ‘Na strata a tratti asfaltata o solo sterrata, a tratti mulattiera che s’inerpica di collina in collina, inghiotte cunette e muri di contenimento, accoglie prodiga scoli e acque reflue e ogni vota ca chiova sembra quasi na iumara ca si va jetta a mari

Laggiù nell’Arizona, se una chitarra suona il cielo si rannuvola e l’orizzonte è la speranza che ti tiene in vita. Nell’aria l’odore di ginestre e rosmarino e l‘aspro odor dei vini dal ribollire dei tini, il chicchirichì mattiniero del gallo e il coccodè isterico della gallina c’ha fattu l’uovu, il tu-tutù-tu delle tortore e lo sbattere d’ali di corvi e gazze, gli spari dei cacciatori che si rincorrono, fin dall’alba, da un versante all’altro del crinale dispensando morte e calpestando vita, come se u munnu appartenesse solo a loro. La campagna la vedi a tratti, a sprazzi, incellofanata, recintata, finemente modellata e cesellata dall’azione imperitura delle pale meccaniche, miseramente abbandonata a se stessa. Fra ulivi secolari e piantagioni dalle geometrie predefinite, case, casupole, casermoni, edifici vuoti e casolari abbandonati da lustri, vecchi ruderi e pretenziosi capannuni. Ogni casa, zimme, zimmuni, magazzini, cisterne e lastricati di cemento tutt’attorno. Pinsamu a ri figli, ad ammonirti con una certa rassegnazione frammista a bieca commiserazione. E di figli sempre meno. Ed i figli se ne vanno: …ca cca, chi cazzu cci facimu? Ma ‘i fravicari mai a smettere, fosse pure ‘mpizza a na timpa, a taglia ‘i jumi, perché il destino te lo fai con le tue mani e bisogna pur investire nel domani, in un’ansia di cupio dissolvi senza mai fine.

Laggiù nell’Arizona cantano mille capinere, il cielo è stellato e l’orizzonte è la tua via di fuga o la possibilità che ti sei precluso. Nell’aria il frinire delle cicale, la brezza inaspettata d’una sera d’estate, il miagolio dei gatti e l’abbaiare di cani che scorrazzano come randagi, ca riciami chin’eri u cani ca ti ricu chin’eri u patruni, della musica che non ti dice niente, un corriere, col suo mezzo tutto scassato, che ti chiede: ma cchiù avanti mi puozzi girari? Lungo il crinale, i campi coltivati e quelli incolti, le stoppie ed il ciarpame lungo le cunette e lungo i fossi, …ché vuoi mettere la comodità di gettare ogni cosa dal finestrino! E dopo l’aratura la terra a scoprire la  sua nudità vulnerabile. Qui e là ammonticchiati fra le frasche, il polistirolo dei contenitori delle piantine trapiantate, il polietilene e pvc dei tubi per l’irrigazione ormai usurati ed ogni scarto delle coltivazioni precedenti, in attesa di falò venturi, picchì ‘a strata cchiu curcia è sempi ‘a meglio. La civiltà contadina una nostalgia del passato e la nuova imprenditoria agricola a questuare sostegni e rimborsi e manodopera a basso costo. Il ciclo delle stagioni a farsi beffe degli uomini e delle loro azioni, fra estati sempre più roventi ed inverni comunque miti, nonostante qualche gelata straordinaria di tanto in tanto. Gli incendi ogni santo giorno di ogni santa estate, qualche frana di tanto in tanto, la siccità per tanti mesi all’anno, l’acqua che scarseggia, i pozzi che si prosciugano e le cisterne che viaggiano in tutte le direzioni, mentre ognuno pensa a se stesso: quasi quasi n’atru puzzu u fazzu, finendo sempre ppi fricari l’acqua a ru vicinu. E meno male che c’è l’acqua ‘i ru cumuni, ppi ri cchiù spierti o i più fortunati, ppi s’aracquari l’uortuciello arrieti ‘a casa e sciacquari avanta ‘a porta! Intanto, certe colture riducono drasticamente quantità e qualità, così come per il tanto rinomato fico (a)dottato cosentino. Chiamatelo cambiamento climatico, chiamatelo come cazzo vi pare o vi conviene, ma la realtà, a conti fatti, non può esaurirsi solo nella sua percezione e nei tuoi occhi bendati.

Laggiù nell’Arizona… Laggiù nel Tennessee… Laggiù nel Kentucky Laggiù… Laggiù… Oggi come ieri. Come sempre.

ilchiuR.Lo.