Premessa
Di fronte al dilagare di reportages, palinsesti televisivi, interviste ad esperti su fatti di cronaca nera, quando questi investono il museo, sembra che persista ancora qualche tabù a descriverli, a ricercarne le motivazioni. Disponiamo quindi generalmente solo di semplici e stringati trafiletti, che però varrebbe la pena di sviluppare. E non certo nella convinzione che tutto sia finto, tutto sia fiction.
L’atto delittuoso riportato nel testo è assolutamente vero, anche se ovviamente la ricostruzione ne è offerta romanzata. I nomi dei protagonisti sono di fantasia, mentre quelli reali, ad esempio di funzionari pubblici, sono per discrezione, omessi o riportati con le sole iniziali.
Obiettivo di tale ricostruzione, come delle altre riportate nel mio libro: Delitti nei Musei (2011) è quello di attirare l’attenzione sul “Museo”, sulla sua identità e su quella dei visitatori. Identità, ognuna delle quali ha bisogno di affermarsi e sentirsi riconosciuta, ma che avverte anche la necessità di instaurare un dialogo con le altre identità in gioco. Chiunque entri in un museo, prima ancora di affacciarsi alle opere esposte, rimane colpito, più o meno positivamente, dalla sua architettura, in funzione ovviamente della sua formazione e preparazione. Vi sarà chi privilegerà la solenne austerità di musei antichi come l’Archeologico di Napoli o il Musée du Louvre, disdegnandone però per questo secondo l’ingresso, che considererà trattato come la hall di un aeroporto. Vi sarà chi si sentirà oppresso dalle forme inclinate e dirompenti dei vari musei di Liebeskind, e vi sarà chi considererà gli spazi ed i percorsi del Maxxi di Zaha Hadid alla stregua di un giardino interno in cui andare a passeggiare la domenica con i bambini.
Ma in un modo od in un altro il museo gli parlerà.
Cronaca dell’evento
“Atti vandalici sono stati commessi ai danni dell’edificio destinato a Museo della Liuteria che sorge sulla Collina Castello di Bisignano. Ignoti hanno rotto il vetro blindato di una delle finestre poste sul lato posteriore della struttura producendo un grosso foro che consente il passaggio di una persona. La struttura, costruita di recente, attende ancora di essere ultimata.
Necessita di sistemi di sicurezza e arredi e anche di opportuni interventi che evitino all’acqua piovana di filtrare all’interno (attualmente invade i locali al piano terra allagandoli). Dei danni procurati alla struttura si è reso conto l’assessore alla Cultura e vicesindaco, D.G., che, immediatamente, ha presentato denunzia contro ignoti ai Carabinieri della locale Stazione e ha provveduto a sollecitare il personale dell’Ufficio Tecnico comunale circa le infiltrazioni di acqua che, a lungo andare, possono provocare seri danni a tutta la costruzione.
Frattanto il sindaco di Bisignano, insieme allo stesso assessore D.G., ha pensato di rivolgersi all’assessore regionale alla Cultura, per chiedere il suo fattivo intervento e assicurare alla comunità di Bisignano almeno parte del patrimonio artistico-culturale dell’antica dinastia dei liutai De Bonis” [Notizia rilevata dalla: Gazzetta del Sud del 23 febbraio 2011].
La mia ricostruzione
Aveva un aspetto molto armonioso la città di Bisignano, ed ovviamente lo ha ancora oggi, così adagiata come è tra dolci colline, boschi e bellissimi vigneti, allevati a cordone speronato. Aveva un suo santo la città, Sant’Umile, proclamato tale da Papa Giovanni Paolo II nel 2002.
Vantava antichissime ed importanti origini, come testimoniavano i numerosi ritrovamenti archeologici della Brutia Besidiae. A suo tempo aveva anche combattuto contro Roma, a fianco di Annibale, la città.
Nel Medio Evo era diventata sede vescovile, e nel ‘400 principato del casato dei Sanseverino. Sul piano culturale, il suo maggior vanto era però la presenza fino dal ‘700, di una bottega d’arte di liuteria nel rione Giudecca, ancora esistente ai nostri giorni. In definitiva non avrebbe mai conosciuto la decadenza Bisignano, se non fosse stato per quel terribile terremoto del 1887, che la distrusse in larga parte. Cominciò così anche l’emigrazione di tanti suoi giovani ed anziani, in particolare verso le Americhe.
Si riprese però nel secondo dopoguerra Bisignano, e conobbe anche un suo locale miracolo economico.
Intorno alla fine degli anni ’80 del secolo scorso le Amministrazioni locali decisero che era venuto il tempo per una riscossa culturale della città e programmarono la creazione di ben tre musei.
Il primo ad essere realizzato fu il Museo Diocesano, su iniziativa di alcune associazioni cattoliche locali, con una ristrutturazione dell’ex chiesa sconsacrata di San Giuseppe. Il progetto tuttavia non decollò mai definitivamente. Non esponeva praticamente collezioni e veniva aperto solo qualche volta durante l’anno. Rappresentava un mistero per la città quel museo mai decollato. Lo rappresentava al punto che, nel 2008, si paventò persino l’ipotesi che potesse venir trasformato in circolo per gli anziani.
Il secondo era, se così si può affermare, l’unico museo funzionante tra i tre. Si trattava di quello promosso dall’associazione culturale “Il Palio”. La relativa costruzione era iniziata negli anni ’90, ma anche lui era da completare, per gli annessi, per le sistemazioni esterne e per il teatro comunale che ne avrebbe dovuto fare parte. Un nucleo centrale era tuttavia stato aperto al pubblico nel 2009. Ma da allora aveva ricevuto la visita unicamente di qualche scuola.
Anche se le collezioni al momento esposte riguardavano solamente i costumi ed i drappi che rappresentano i quartieri storici della città, l’associazione culturale, che ne aveva promosso la realizzazione, si stava attivando nella raccolta ed acquisizione di numerosi altri cimeli del “palio”.
Per quanto concerneva quella storica manifestazione cittadina, si stava infine studiando di ripristinare la giostra equestre, che negli anni ’60 era stata apprezzata in tutta la regione, e che da sola, per diversi lustri aveva rappresentato il maggiore elemento di attrazione per il turismo estivo.
Il terzo faceva bella mostra di sé in cima alla Collina del Castello. Si trattava di una struttura edilizia particolare, che in alto, richiamava la forma stilizzata di una chitarra. Era il Museo della Liuteria, la cui costruzione era un po’ più tarda, dell’inizio del nuovo millennio. Non era però ancora mai stato utilizzato. La costruzione era stata completata, e tuttavia per qualche mistero non si erano riuscite ad ultimare le pratiche per ottenere la necessaria agibilità dell’edificio, che si trovava ormai in stato di avanzato degrado, ancor prima di venire inaugurato. Ovviamente essendo rimasto privo di abitabilità non vi potevano venir portate le vetrine e le preziose collezioni.
Il Museo era destinato a diventare un centro artistico e culturale di richiamo internazionale per tutti gli studiosi e gli appassionati di liuteria classica e moderna, in quanto vi si sarebbe raccolto ed esposto tutto ciò che costituiva il patrimonio artistico e culturale della dinastia De Bonis che, per secoli, aveva sviluppato l’antichissima tradizione della liuteria, ed alla quale si erano rivolti i più grandi musicisti di tutte le epoche.
Una specialità della bottega De Bonis, e che avrebbe costituito il punto di maggiore attrazione nel Museo, era ovviamente “il mandolino-arpa”, strumento molto particolare e dalla forma insolita, ma soprattutto dal suono incredibilmente dolce e suadente.
Ma allora, come detto, il Museo era ancora vuoto [Informazioni sulla città riprese dal sito: http://www.bisignanoinrete.com, del 25 maggio 2010].
Non pensino però gli umani che i tre Musei si abbattessero per questa loro condizione. Erano disoccupati, ma non se ne rammaricavano troppo. Avevano molto tempo libero e lo occupavano nel modo più consono a dei Musei provinciali della Calabria di quegli anni.
Si ritrovavano tutti e tre all’osteria e si facevano portare un buon litro di Terraccia, che cresceva su quei terreni di natura prevalentemente sabbiosa. Era un vino secco, caldo, morbido, bilanciato da una buona acidità. Aveva un retrogusto di amarene sottospirito e frutti di bosco in confettura, che si confondevano in sequenza con il pepe nero, la liquirizia e il fieno, fino al caffè, al cioccolato ed al cuoio.
I tre si sorseggiavano con gusto quel buon vino, accompagnandolo con fichi secchi alle mandorle. E così passavano piacevolmente le serate. Quando poi un museo da altre città li andava a trovare, organizzavano anche una bella partita a scopone scientifico. Se era il Museo Civico di Altomonte a raggiungerli, chiuso anche lui da tempo per riallestimenti, questo faceva coppia con il Museo della Liuteria e loro due vincevano regolarmente. Erano forti nel gioco a carte. E possiamo testimoniare che non baravano.
Non erano niente male quelle loro serate. E non ci si stia a chiedere come facessero dei musei ad andare all’osteria ed a giocare a carte. Per quale motivo queste dovrebbero essere prerogative specifiche degli umani? Provare a rispondere alle curiosità pelose degli umani sarebbe davvero solo una perdita di tempo, e quindi non lo faremo.
Lasciamo ora i tre Musei ai loro allegri passatempi ed occupiamoci degli umani, ma non di tutti, che poi sono generalmente gretti ed antipatici. Ci occuperemo solo di una di quelle tante categorie di umani che soffrono.
Trentamila erano state in quel periodo, nella sola provincia di Cosenza, le persone che soffrivano di anoressia e bulimia. Patologie diffuse, quindi, che affliggevano soprattutto adolescenti di sesso femminile, tra i tredici ed i diciassette anni di età. Per affrontare questa tipologia di problematiche era indispensabile l’aiuto di esperti psicoterapeuti, oltre ovviamente ad un’enorme comprensione all’interno delle famiglie. Mancavano tuttavia le strutture pubbliche per prevenire e curare la deriva fisica e psicologica cui andava incontro questa particolare categoria di pazienti.
A tali carenze si aggiungevano spesso situazioni familiari con condizioni socio culturali inadeguate. “Purtroppo abbiamo avuto esperienze di vere e proprie violenze fisiche in famiglia pur di far mangiare il paziente; da questo punto di vista bisogna considerare tanto l’esasperazione quanto le condizioni socio-culturali di appartenenza, ma il fenomeno è più diffuso di quanto si creda”, aveva dichiarato un medico impegnato nella gestione e cura di soggetti anoressici e bulimici.
Veniva da una famiglia molto a modo Paola Mastrovano. Non erano ricchi, ma non facevano mancare nulla alle loro due figlie Manuela e Paola, e sognavano per loro un futuro migliore. Dovevano studiare e poi trasferirsi in una città più grande, con più opportunità. Loro, i genitori, si sarebbero volentieri rassegnati a rimanere soli, per il bene delle loro due ragazze. Paola, la secondogenita che ora ne aveva diciassette, aveva cominciato ad accusare un’ossessione per il cibo, già da due anni. Si vedeva cicciottella e continuava ad aumentare di peso. A quindici anni, quando stava già frequentando il liceo scientifico, aveva iniziata la dieta ed aveva smesso di mangiare. Si era progressivamente isolata, stava sempre chiusa in camera a studiare e se a scuola riusciva bene, con le compagne era un vero disastro.
Iniziò a calare paurosamente di peso, arrivando sotto i trentotto chili e ad avere anche problemi con il ciclo mestruale, che finì per sparire; ma era contenta. Era la dimostrazione che gli effetti della denutrizione cominciavano a farsi vivi. I genitori ovviamente erano disperati ed esasperati allo stesso tempo. Ma non trovavano una soluzione e la ragazza rifiutava di farsi curare [Figura di Paola e situazione della sua malattia liberamente riprese dal sito: http://www.gazzettadelsud.it/NotiziaArchivio.aspx].
La sorella maggiore Manuela era molto diversa. Studiava, ma giusto il necessario per fare contenti i genitori. Per il resto era sempre in giro tra feste e discoteche. Frequentava anche persone che forse sarebbe stato opportuno evitare. E queste le avevano più volte proposto di andare a trasferirsi a Reggio. Così, quell’anno, aspettava solo di finire il liceo e poi a novembre si sarebbe iscritta all’università proprio a Reggio. Queste persone che frequentava le avevano consigliato di fare architettura, che poi ci avrebbero pensato loro ad immetterla in un bel giro di Studi professionali impegnati in importanti lavori pubblici.
I capricci della sorella, così lei definiva la sua malattia, la innervosivano oltremodo. Aveva sempre paura, Manuela, che la sua situazione familiare potesse venire a rovinare quei bei rapporti che lei si stava costruendo.
Così una sera che a tavola Paola fu particolarmente ferma nel suo rifiuto del cibo, la sorella maggiore iniziò ad insultarla con parole anche molto pesanti. I genitori, già esasperati dall’atteggiamento della figlia anoressica, non ressero a questa ulteriore situazione di stress. Il padre se ne uscì di casa sbattendo la porta e dichiarando che lui quella figlia non la voleva più vedere. Che andasse a farsi curare! La madre corse in camera a piangere ed in sala rimasero solo le due sorelle a manifestarsi tutto il loro reciproco odio.
Ad un certo punto Manuela iniziò anche a mettere le mani addosso a Paola. Non era mai più successo, da quando si facevano dispetti da bambine e si azzuffavano. Fu uno shock terribile per la giovane ragazza, che scappò via correndo, disperata.
Iniziò a vagare senza meta, ma era contenta di essere finalmente sola. Poi con tutto quel trambusto che c’era stato in casa, aveva anche potuto evitare il cibo, che odiava. Camminava senza sapere dove andasse, ma due concetti li aveva chiari lei: non si piaceva, anzi si detestava, ma detestava ancora di più la famiglia e quella sua sorella, che pensava solo ai suoi amici equivoci. Sì, non sarebbe più tornata da quella famiglia. Sarebbe scappata di casa, lei. Quel pensiero la spaventò un po’, ma nel profondo le procurò anche una grandissima soddisfazione.
Camminava tutta presa da quei suoi pensieri, quando si accorse di trovarsi in una zona periferica e priva di case, che lei aveva sino ad allora evitato. Le fece impressione quel posto deserto e abbandonato, ma era contenta di essere sola.
Poi si accorse di trovarsi davanti ad uno strano edificio, a forma di chitarra o comunque di strumento musicale. Le metteva un po’ di soggezione quel luogo isolato e quell’edificio così lasciato ad uno strano destino. Un destino in fondo come il suo.
Questo pensiero le portò un sorriso. Quel Museo in definitiva le assomigliava un poco. Sì, le sembrava simpatico quel Museo. Subito si corresse. Come faceva ad aver avuto un pensiero così nei confronti di un edificio? Ma vedeva bene che quel Museo non era come i suoi familiari, come i suoi compagni, nei cui confronti si chiudeva sempre. Ecco forse le ricordava piuttosto sua Zia Angelina.
Ebbe ancora un attimo di esitazione, ma poi si decise. Avrebbe passato lì la notte.
Si guardò intorno e raccolse da terra uno di quei cubetti di cemento che si fanno nei cantieri per le prove di resistenza, forse dimenticato o forse mai utilizzato e lo scagliò con tutta la forza dei suoi trentotto chili, contro una delle vetrate sul retro del Museo.
Per lei andò bene. Si era creato un largo squarcio in quella vetrata, da cui lei sarebbe potuta passare agevolmente, per andarsi a nascondere e rifugiare in quella struttura abbandonata. Andò invece meno bene per il Museo. Ma non dovevano essere vetri blindati quelli delle sue vetrate? Eppure lo ricordava bene, così era scritto nel capitolato d’appalto. Per non parlare di quelle infiltrazioni d’acqua dalla copertura, che lo facevano stare sempre con i piedi bagnati e di recente lui si era pure raffreddato.
Aveva uno spiccato senso della legalità quel Museo. E non gli andava giù che negli appalti le opere non venissero realizzate con un minimo di correttezza. Quanto al piccolo atto vandalico, che aveva appena subito, qualcuno potrebbe pensare che lui prendesse immediatamente delle misure, visto che era così legalitario. Poteva trovare il modo ad esempio di sporgere una denuncia. Ne fanno tante di denunce gli umani, anche quando non dovrebbero, mentre invece quando sarebbe il caso, le circostanze li forzano a restare muti.
Ma questo non valeva per il nostro Museo. E lui era un museo molto particolare, che le denunce le avrebbe anche sapute fare. In questo caso però non volle.
Non riusciva proprio a provare rabbia nei confronti di quella giovane ragazza, che aveva rotto il vetro. Gli appariva così fragile, spaventosamente magra, quasi trasparente. Più che di rabbia sembrava avere un tremendo bisogno di aiuto. Di ritrovare autostima di sé. Era mai possibile che non vi fosse nessuno in grado di aiutarla, di venirle in soccorso?
Paola nel frattempo era entrata da quel varco nella vetrata. Ora vista da vicino, la ragazza mostrava chiara tutta la sua profonda angoscia. Possibile mai che l’unico a rendersene conto ed a decidersi a pensarci dovesse essere un Museo? Erano così ridotti male quegli umani, tutti presi dalle loro meschine faccende?
Fu lunga e piena di paure quella notte per Paola. Faceva un gran freddo. Lei si rannicchiò in un angolo lontano da quello squarcio che aveva creato nel vetro blindato. Usò come coperta il suo anorak bordato di finta pelliccia, ma tremava e non solo per il freddo.
Intanto si era alzato il vento, che portava ulteriore aria fredda nell’edificio. Ma portò anche una specie di nenia. Le parve quasi di udire delle parole:
“Vorrei tenderti una mano,
vorrei starti vicino,
vorrei ascoltare il tuo cuore e le tue paure,
vorrei sentire la tua rabbia che esplode,
vorrei accogliere tutte le ingiustizie, le delusioni, i rancori e le incomprensioni che ti porti dentro,
vorrei riscaldarti con un abbraccio che non giudica, ma che ti sostiene e ti riscalda…”
Tremava tutta Paola. Aveva probabilmente degli incubi, ma ad trattò le sembrò che quelle parole non fossero uno strano effetto del vento, bensì che venissero pronunciate proprio da quel Museo vuoto. Era ormai la sua mente che vagheggiava?
Esausta alla fine si addormentò. Ma ad un tratto un rumore lontano la svegliò. Intorno a lei tutto era buio e lei tremava. Guardò l’orologino con i numeri fosforescenti. Mancava ormai poco all’alba. Doveva farsi coraggio e resistere. E poi quell’antipatico vento era cessato. Era un pensiero un po’ banale, ma le diede fiducia ugualmente.
Ma se il vento era cessato, cos’era mai ancora quello strano fruscio, quella specie di bisbiglio? Era dunque il Museo, per il quale aveva provato simpatia la sera prima, che ora le parlava? Era possibile una cosa simile?
Ricordava da bambina quando andava in chiesa con la mamma e lei le parlava dell’angelo custode. Era come quella di un angelo custode quella flebile voce?
E quel sussurro, tenero e comprensivo le diceva che lei era bella per come era. Che i suoi difetti e le sue debolezze erano la cosa più meravigliosa e preziosa che avesse. E poi le chiedeva cosa potesse essere considerato più importante: tra l’infilarsi due dita in gola e morire di fame, ed il perdere le cose belle che lei stava lentamente distruggendo. [Concetti dell’Aiuto del Museo a Paola liberamente tratti dal sito: http://community.girlpower.it/lettera-ad-una-ragazza-anoressica-vt166670.html].
Parlarono a lungo Paola ed il Museo. Parlarono ed alla fine la ragazza sentì che qualcosa le si stava muovendo dentro. Era una bella sensazione, ed in qualche modo appagata, lei si addormentò di nuovo.
Quando si svegliò definitivamente, il sole era già alto. Quel luogo era sempre più deserto, ma lei si sentiva come diversa, senza più quel pesante groviglio tra il petto e lo stomaco. Forse quel suo tunnel poteva effettivamente avere una via d’uscita. Ma non ne avrebbe certo parlato con i suoi genitori. Provava solo rabbia ed un forte rancore nei loro confronti. Ed allora le rimaneva solo la zia Angelina, da cui andare a rifugiarsi.
Nei giorni successivi iniziò a piovere, una pioggia da paese tropicale, che stava interessando tutta la Calabria. Erano i cambiamenti climatici, in buona parte indotti dalle sconsiderate attività degli umani.
Fortunatamente non successe nulla di grave al Museo, se non per quelle infiltrazioni dalla copertura. Lo squarcio del vetro non stava producendo poi alcun effetto, se non un labile sibilare del vento all’interno delle sale. Dicevamo che lui, il Museo, non voleva in ogni caso denunciare la ragazza. Non ce l’aveva con Paola. Era solo contento di essere riuscito ad aiutarla, di averla potuta scuotere.
Ma un esposto al Comune invece lo fece, per quelle infiltrazioni di acqua piovana. Certo si trattava di un esposto alquanto singolare, quello fatto da un museo. All’Assessorato alla Cultura gli ci vollero oltre due settimane per capire il senso di uno starno foglietto, che trovarono a terra una mattina, aprendo gli uffici. Alla fine si decisero e disposero che venisse effettuato un sopralluogo tecnico, per “verificare l’impermeabilizzazione della copertura e constatare la situazione degli allagamenti”, come era scritto in quel misterioso pezzo di carta.
Nel corso delle ispezioni si accorsero anche della vetrata infranta, ma quella era ben protetta da una pensilina e l’acqua non era certo da là che poteva entrare. Comunque ripararono alla bene e meglio la guaina di impermeabilizzazione e sostituirono il vetro, ovviamente con uno altrettanto fragile. Ed allora sì, che il Museo andò su tutte le furie!
Si era detto di Paola che corse a rifugiarsi dalla zia. Le raccontò della fuga da casa e della notte nel museo, omettendo però la sensazione di quelle voci, che pure erano state così importanti per quella sua decisione. L’anziana donna fu estremamente attenta e premurosa con la ragazza. Innanzi tutto avvertì la famiglia che ora Paola stava da lei. Sorvolò ovviamente su certi dettagli, come il piccolo atto vandalico e quella notte passata fuori casa. Poi con il passare dei giorni riuscì ad ottenere che la ragazza accettasse i primi approcci con psicologi e quindi a convincerla a farsi portare in una clinica per disturbi alimentari, a Verona, città in cui avevano dei parenti.
Prima di partire per il Veneto, Paola volle però andare a salutare il suo Museo. Nel frattempo la vetrata era stata cambiata e lei non poté entrare. Ma chi fosse stato presente avrebbe potuto confermare che si trattò di un saluto molto cordiale da entrambe le parti.
E Paola gli promise anche che sarebbe andata alla sua inaugurazione, per quando fosse stato finalmente completato di arredi e collezioni ed aperto al pubblico.
Quanto a lui, la sera successiva, all’osteria, ne parlò agli altri due Musei e tutti e tre mandarono un abbraccio con il pensiero a Paola ed alla zia, che ora si trovavano sull’Inter City diretto verso il nord. Un viaggio lungo, faticoso ed estenuante, come sanno tutti gli umani che vengono da quelle zone della Calabria. Paola avvertì immediatamente quell’abbraccio. Certo che li aveva conosciuti gli altri due Musei, anche se non si erano molto frequentati. E così ricambiò quell’abbraccio.
Quanto alla zia, lei avvertì come un colpo di vento di cui non comprese però bene l’origine; si affrettò comunque a chiudere il finestrino e la porta dello scompartimento.
Paola varcò la soglia di quella clinica ed iniziò a riversarvi tutta la sua sofferenza. La terapia seguita determinò in lei un succedersi di alti e bassi, dove questi prevalsero all’inizio, ma poi iniziarono con il diradarsi, fino a quando i medici capirono come la situazione stesse migliorando, giorno dopo giorno. “Sento che il mio rapporto con il cibo è ancora conflittuale – disse un giorno Paola alla zia – ma non come prima; non vorrei mai tornare quella di allora”. Stava gradualmente divenendo capace di ricostruirsi una vita, la ragazza.
Era stata curata per sua scelta. Ma tutto era cominciato con l’impatto con il Suo Museo, con cui aveva parlato a lungo e che l’aveva aiutata a capire che da quel tunnel si poteva anche uscire.
Grazie a quella notte ed ovviamente all’amore ed alle cure della zia, era riuscita a rendersi conto del “suo problema” ed aveva intrapreso un percorso con l’assistenza di personale attento e capace. Per oltre due anni si era nascosta dietro la rabbia e dietro la perfezione. Ma ora si era resa conto di poter vivere anche senza quella maschera. Poteva vivere e sentiva che vi erano persone che la amano per come era, anche con i suoi difetti. E lei per prima sentiva di potersi voler bene.
Adesso stava bene Paola. Aveva recuperato il suo naturale sorriso solare, a scuola aveva sempre ottimi voti, usciva con gli amici, si era fatta anche un fidanzatino. Anche con i genitori, ed in fondo anche con la sorella le cose andavano molto meglio. Avevo voglia di essere amata, lei, aveva voglia di godersi la vita.
Certamente vi erano ancora momenti in cui l’ossessione tornava, soprattutto quando era sotto stress, per un voto non altezza delle aspettative, per un esame. Ed allora lei tornava dal suo Museo, che continuava a rimanere chiuso e vuoto, ma lì ritrovava la forza di combattere.
Per concludere e per chi vi fosse interessato, diremo che finalmente, dopo quel sopralluogo tecnico e quelle riparazioni di fortuna, la questione del completamento del Museo della Liuteria venne affrontata dal Consiglio Comunale di Bisignano, nella sua seduta del 4 aprile 2011. Così forse non si dovranno aspettare ancora troppi anni per la sua inaugurazione, cui ovviamente Paola prenderà parte, insieme ai genitori ed alla zia.
Da: Delitto nei Musei (2011)
Scritto da: Ago Fabrizio