Don Lorenzo Milani, innovatore pedagogico

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Don Lorenzo Milani fu una delle figure più rappresentative ma anche più discusse, controverse e fraintese nella storia recente della chiesa e della scuola.

Fin da subito dimostrò di non essere uguale a tutti gli altri uomini di chiesa:non emarginò i comunisti ed esortò gli operai ad iscriversi ai sindacati in modo tale da difendere, con lo sciopero e il voto, i loro diritti. Sempre dalla parte dei poveri, egli comprese come uno dei diritti fondamentali, quello all’istruzione, fosse carente e poco rispettato nell’Italia  Repubblicana. Per lui che riteneva che tramite il linguaggio ogni cittadino potesse avere gli strumenti utili ad acquisire   consapevolezza critica, autonomia di giudizio, responsabilità di decisione e l’orgoglio della dignità,  una formazione culturale compiuta non poteva che attuarsi nella dimensione del dialogo e in particolare quello che si instaura con chi più differisce da noi. Riteneva che la scuola e la chiesa fossero strettamente collegate tra di loro poiché la prima formava le coscienze e la seconda le indirizzava al bene. La scuola è quindi così necessaria al punto che sarà descritta come un ottavo sacramento.

I primi passi che don Milani mosse nella realizzazione di  una scuola popolare furono quelli scanditi nell’opera “Esperienze   pastorali”, dove veniva narrata la sua attiva scolastica svoltasi a San Donato di Calenzano, ma sarà a Barbiana, piccolo paesino sperduto nelle montagne toscane, che don Milani divenne uno dei più importanti pedagogisti della storia italiana. Lì giunse a causa della scomunica della Curia fiorentina, la quale raggiunta dall’eco delle azioni del priore vedeva in lui una grande minaccia. La soluzione che attuarono fu quella di esiliarlo sulle montagne fiorentine nel 1954.

Appena arrivò lì fece subito due cose: la sera fondò, insieme ai dieci ragazzi presenti a Barbiana, la scuola popolare; mentre il giorno seguente andò in comune per comprare una fossa nel cimitero sotto la chiesa per dimostrare come la sua intenzione non fosse quella di essere solo di passaggio a Barbiana.

La decisione di  fondare la scuola fu presa per un duplice motivo, come afferma nella Lettera ai giudici: da un lato per formare nei ragazzi il senso alla legalità, mentre dall’altro per sviluppare, sempre in loro, la volontà di leggi migliori. Non c’è tematica del suo tempo di cui non si sia occupato nella sua scuola, anche tramite la lettura dei quotidiani. Ciò permetteva ai suoi ragazzi di sviluppare il linguaggio e di migliorarlo, oltre che prendere coscienza dei problemi sociali e capire come affrontarli. Don    Milani inoltre voleva che i suoi alunni fossero padroni del linguaggio perché solo in questa maniera potevano realmente comprendere il messaggio contenuto nella parola di Dio.

La scuola che il priore istituì a Barbiana aveva una struttura che non aveva nulla a che vedere con quella della scuola pubblica di Stato. Si svolgeva da aprile ad ottobre all’aperto, mentre durante l’inverno si svolgeva dentro i locali della Chiesa. L’orario della scuola era il seguente: 8-19:30, con una breve interruzione per il pranzo, e si svolgeva per 365 giorni all’anno. Non si faceva né la ricreazione né giochi; al loro posto c’erano delle cosiddette “materie scolastiche appassionanti”, cioè ad esempio lo sciare  durante l’inverno e il nuotare d’estate in una piccola piscina che era stata costruita dagli stessi ragazzi con l’aiuto del priore.    C’erano anche delle officine dove si insegnava ai ragazzi a lavorare il legno e il ferro, attività manuali che venivano considerate importantissime alla stregua delle attività scolastiche. Per ottenere il diploma i ragazzi della scuola dovevano affrontare gli     esami da privatisti alle scuole di stato. Questa era una scuola particolare, senza né voti né pagelle, né rischio di bocciature.

Don Milani con questa sua scuola intendeva lasciare un’eredità ai suoi studenti futuri adulti, cioè quella di lavorare in mezzo agli sfruttati e di capire come non sia necessario essere per forza insegnanti per educare, poiché non bisogna fare ma “bisogna essere” per educare.

L’argomento della lezione e i contenuti diventano secondari nel metodo milaniano, dato che ogni occasione è buona affinché i ragazzi imparino qualcosa; l’importante è che la lezione sia sempre caratterizzata da una partecipazione attiva, dalla collaborazione e mai dall’esposizione fredda.

La chiave più importante della sua scuola però è l’amore, poiché l’educatore deve amare i suoi ragazzi, dedicando ogni secondo della sua giornata alla loro formazione. E’ importante per don Milani far capire ai suoi ragazzi di essere superiori e non inferiori ai ragazzi di città, siccome egli reputa che la vita di quest’ultimi, con i suoi agi e comodità, li rovini e non li agevoli.

Per don Milani era importante che la scuola permettesse ai ragazzi di uscire dai confini del loro paesino proiettandoli verso il mondo e le sue tematiche. Un mezzo per realizzare ciò era l’utilizzo del giornale quotidiano, un vero e proprio strumento didattico che poteva aiutare a sviluppare nei ragazzi il senso critico e l’uso della parola, permettendo in loro il riscatto sociale e l’emancipazione. Il giornale rappresentava un materiale eccezionale per l’esercizio interdisciplinare ma anche per attualizzare costantemente i contenuti. La lettura della stampa quotidiana, come anche quella delle corrispondenze del priore stesso, della Costituzione e dei resoconti parlamentari erano un passaggio obbligato di ogni giornata di lezione, dal momento che  rappresentavano un punto di partenza per i discorsi legati alle discipline scolastiche d’obbligo e, in particolare, per le questioni che rimandavano all’educazione linguistica o alle questioni di natura socio-politica.

Don Milani era critico nei confronti della pedagogia del suo tempo, lontana dalla quotidianità dell’esperienza educativa, che  veniva svolta a scuola e fuori di essa, e che non era capace di comprendere come tutti i ragazzi fossero diversi e come la scuola non doveva essere fine a se stessa. Per attuare questa pedagogia il docente doveva essere dotato di tre caratteristiche: la sua esemplarità, l’azione didattica e l’onestà intellettuale.

L’obiettivo di don Milani è quindi quello di dare al popolo una cultura diversa da quella borghese, andando oltre  l’alfabetizzazione strumentale e raggiungendo l’alfabetizzazione culturale vera e propria che poteva permettere al soggetto di raggiungere la maturità. Tramite ciò si potrà avere la realizzazione dell’uomo in tutta la sua autenticità.

L’epoca della scuola milaniana viene ricordata soprattutto per il metodo della scrittura collettiva dal quale nascerà il testo principale di questa esperienza: “Lettera ad una professoressa”. Questa “Lettera” è un’opera collettiva composta dagli allievi  della scuola di Barbiana sotto la guida del priore, con in più la collaborazione di quei ragazzi che dopo aver frequentato questa scuola si trovavano in giro per il mondo. Essa fu pubblicata tre anni dopo la nascita della nuova scuola media unificata con la riforma scolastica del centro sinistra, che si rivelò essere una nuova occasione persa per la classe contadina e proletaria. Don Milani insieme ai suoi ragazzi fece partire una dura accusa contro la scuola del suo tempo, ritenuta classista e selettiva, che prometteva a tutti otto anni di studio ma che in realtà in molti casi semplicemente teneva sotto le proprie pareti i ragazzi per otto anni, facendogli ripetere la stessa classe per tre o quattro volte. La scuola, secondo l’idea del priore, doveva invece offrire delle vere occasioni di sviluppo e di crescita per ogni ragazzo. Solo tramite la cultura i poveri e i contadini potevano superare la loro rassegnazione e difendersi dal loro padrone. Le altre accuse furono mosse contro la classe dominante che, servendosi della   scuola, assicurava la riproduzione sociale e la perpetuazione delle diseguaglianze scolastiche; contro gli insegnanti che risultavano essere strumenti di selezione, che non si curavano dei ragazzi che la scuola perdeva per strada non facendo nulla per recuperarli e per le poche ore di lavoro che svolgevano; contro la classe politica che, nonostante i buoni propositi e le riforme, aveva interesse che il sistema scolastico rimanesse immutato.

La più grande accusa però è quella che viene mossa nei confronti del metodo di valutazione, che non tiene conto dei livelli di partenza e che così eguaglia tutti generando l’ingiustizia di “fare parti uguali tra disuguali”. Questo è un gravissimo errore  perché se un ragazzo non ha mai avuto nessun contatto con l’insegnamento o con la cultura non può essere messo sullo stesso livello di un ragazzo che invece ha ricevuto una cultura di alto livello fin da piccolo. Facendo così non si fa altro che generare una grandissima ingiustizia. Quest’opera, quindi, muove una proposta per la realizzazione di una scuola nuova, basata su tre punti: non bocciare; a quelli che sembrano cretini dare la scuola a tempo pieno; agli svogliati dargli uno scopo. Questo metodo, che don Milani aveva già realizzato a Barbiana, avrebbe permesso la realizzazione di una scuola veramente giusta, dove si sarebbe realizzata un’autentica uguaglianza socio-culturale in cui sarebbero rientrati anche i ragazzi disadattati, con    l’obiettivo di parlare all’interno di questa scuola un’unica lingua compresa da tutti.

Le altre proposte erano: una riforma degli ordinamenti e delle strutture, il rinnovamento della didattica, della dialettica e delle strategie di insegnamento, la valorizzazione delle esperienze extra scolastiche, la rivalutazione e l’interesse nei confronti dei    problemi e dei bisogni degli alunni, l’abolizione dei voti e degli esami e la conformità all’ambiente di provenienza degli alunni. Quest’opera lasciò un segno indelebile nella storia della Scuola italiana, dato che costituì un’importante premessa di quanto il movimento studentesco del 68 volle attuare. Molti la vedono come il più bel commento all’articolo 3 della nostra Costituzione, secondo cui è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,    impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti.

Tutta la pedagogia barbianese ha come motivo principale quello della conquista della parola, della propria lingua e di quelle straniere, e fondamentale per fare ciò risulta essere l’utilizzo di questa tecnica che permetterà di incontrare la verità scrivendo. Il possesso della parola, quindi, come obiettivo principale per permettere ai suoi ragazzi di essere “buoni figlioli, responsabili delle loro azioni,cittadini sovrani”, soggetti quindi in grado un giorno di cambiare la società, tutelando tutte quelle persone che subiscono sempre i soprusi altrui.

In conclusione capiamo come sia la ricchezza del vocabolario a rendere subalterni o egemoni gli uomini. La disuguaglianza tra gli individui si combatte dando ai poveri lo stesso numero di parole dei ricchi e arricchendo il loro vocabolario. La scrittura dovrà quindi diventare collettiva, espressione di tutti, perdendo il carattere dell’individualità.

Capiamo benissimo che temi come l’accettazione della diversità, dell’intercultura, siano tematiche ancora lungi dall’essere risolte. E’ proprio questa attenzione agli emarginati, ai bisognosi, agli handicappati, agli ultimi in generale che rende don Milani così attuale, cercando di cogliere il segreto che si cela dietro il miracolo educativo compiutosi a Barbiana.

Armando Zavaglia