Non so fino a che punto De Magistris ci sperasse in una possibile vittoria, certo non si è risparmiato. Le lezioni comunali non sono tuttavia quelle regionali. La Calabria non è Napoli. Il 2021 non è né il 2011 né il 2015. Le indagini in magistratura in terra bruzia ad arrendersi all’immagine mediatica di sindaco in terra campana. Il tempo una variabile non trascurabile.
Non so se un’alleanza più larga, allargata a Tansi o ad una o più frange del fantomatico e fantasmatico centro-sinistra calabrese, tutto da (ri)costruire e (ri)definire, avrebbe avuto miglior fortuna, ma probabilmente non ci si sarebbe scostati dal risultato ottenuto, almeno in termini percentuali. …Ancora tira il soccorso rosso al piddì? Se De Magistris fosse stato percepito come una vera minaccia per lo status quo, e se tutte le analisi fatte sull’assenteismo e sul voto calabrese fossero fondate, non avrebbe potuto essere altrimenti. Il controllo masso-mafioso del voto o c’è o non c’è.
Sull’assenteismo dei calabresi se ne sono lette tante, ma forse è bene ribadire come l’assenteismo sia stato un incontrovertibile dato nazionale, e come si sia registrato (sebbene in misura minore) anche nelle elezioni comunali delle città calabresi chiamate al voto. E probabilmente senza le comunali l’astensionismo regionale sarebbe stato maggiore. Al netto di residenti all’estero e fuorisede, molti giovani, fuori per motivi di studio e di lavoro, non hanno votato. È palese come il voto calabrese sia condizionato vieppiù dall’anagrafe, tenuto conto anche della denatalità degli ultimi lustri. Insomma, la Calabria, come l’Italia del resto, è sempre più una terra di vecchi per vecchi.
Anche la legge elettorale penso abbia pesato sull’astensionismo nonché sui voti validi, per via della sua implicita artificiosità (con sorprese dell’ultimo minuto sempre in agguato), per via delle molte liste collegate ai candidati alla presidenza (ad personam e su misura per la tornata elettorale), con tutta una simbologia poco riconducibile a “partiti” consolidati e/o a leader nazionali. La scelta dei candidati, frutto dei soliti metodi di cooptazione, filiazione e/o affiliazione, sorteggio, capacità taumaturgiche e/o elettromagnetiche… ha spaziato dai soliti noti all’illustre sconosciuto della porta accanto, risultando più respingente che attrattivo. Il tutto in un panorama di partiti inesistenti, a conduzione familiare, di testimonianza residuale, di comitati elettorali allestiti a bell’apposta, e in un clima d’allontanamento progressivo dalla politica militante oramai più che ventennale. Difficile da decifrare se e in che misura abbia agito la doppia preferenza di genere sul voto, non certo in misura così rilevante da avvicinarsi ad eguagliare, nel numero degli eletti, uomini e donne
La politica è vieppiù un affare/faccenda/job per pochi, un hobby per pensionati, mestatori o miracolati, in una bolla di autoreferenzialità e volontà escludente, che tuttavia riesce nell’impresa di attrarre non all’attivismo politico, ma alla corsa alla candidatura al posto di quei politici che si condannano (spesso a ragione) per emularne pari pari le gesta una volta eletti. …Quanti erano i candidati in lizza per la nomination o con il gratta & vinci in mano?
La non elezione di De Magistris, per via della legge elettorale e dalla sua non candidatura come consigliere, se da un lato rivela speranze e carattere del personaggio, sembrerebbe non essere un buon vaticinio per il futuro del suo polo civico. C’è spazio tra i due vasi comunicanti per un terzo incomodo, che non si riduca al solito drappello di rivoluzionari in attesa d’una rivoluzione di là da venire? Dimenticato De Magistris sarà la volta di Gratteri, Che Guevara redivivo, o un influencer di taratura e/o caratura più appetibile?
La mobilità del voto non sembra essere più uno spettro e si brinda al ritrovato bipolarismo, che in realtà è solo una simulazione o finzione. Se il partito unico al potere trova la sintesi/mimesi perfetta nel governo tecnico di Draghi, sotto la protezione dei mercati, dell’Europa e della stampa di regime, è a livello periferico, anche in una regione come la Calabria, che il partito unico maschera la sua buona e/o mala politica con lo schierarsi di comodo dall’una o l’altra parte, solo come mero escamotage per continuare a garantirsi e meglio spartirsi la gestione del potere. O meglio, del potere che rimane.
In cosa la classe dirigente e politica calabrese sarebbe mediamente peggiore o migliore di quella del resto della penisola? Non è forse il tessuto socio-economico a marcare le differenze fra la Calabria e il resto d’Italia, fin dall’istituzione dell’ente regione? Non è l’autonomia differenziata auspicata dalle regioni del nord il segno e la prova tangibile di un’unita nazionale ancora in predicato e di una coperta economica volutamente sempre più stretta? E mentre le aree del disagio si allargano (le cosiddette periferie) abbracciando l’intero paese e non solo per via della pandemia, le aspettative verso la politica ed il futuro miseramente naufragano affogando i sogni nei più elementari bisogni del quotidiano. Il do ut des, la sudditanza, ed il favore per garantirsi solo la sopravvivenza fino al prossimo mese o la prossima settimana. Accanto al disagio degli uni i privilegi e le sopraffazioni degli altri, con la politica a ergersi garante di equilibri precari e sempre più sbilanciati. Abbiamo ancora bisogno di una politica che si avvita nei soliti ritornelli/mulinelli di ponti sullo stretto, alta velocità, megagalattici eventi e investimenti nei soliti rivoli? Abbiamo bisogno ancora dei soliti refrain sulla crescita, sviluppo, rilancio dei consumi, condoni ecc. eccetera?
Certo il provincialismo, il campanilismo, le solite tare ed i retaggi atavici, e tutte le analisi storico-socio-antropologiche del caso, per risollevare le sorti del paesello, della città o della regione, per allinearli al resto d’Italia, per raccogliere gli ultimi spiccioli di manna dal cielo, tutto quello che volete, ma come superare una narrazione del presente fatta di rinunce ed incapacità d’immaginare il futuro al di là delle coordinate usate ed abusate. In un eterno presente d’incombenze e tormenti, malattie conclamate e immaginarie, la realtà a muso duro e lo scherno di una realtà specchio/schermo delle brame, o la fuga in un passato di barbari, Borboni, briganti, la mappa dei tesori e il tesoro di Alarico. La pandemia non ha insegnato nulla e forse nulla poteva insegnarci. La transizione ecologica rischia di essere solo l’ultimo espediente e tentativo del sistema capitalistico dell’estetizzazione e spettacolarizzazione dell’apocalisse, dell’antropocene ridotto al rango di mero oggetto di consumo, della fine di un mondo distopico in diretta televisiva su tutti i device disponibili sul mercato. Tutti a sperare in un ritorno alla normalità, una normalità che faceva orrore prima e dovrebbe fare più orrore oggi. Qualcuno vorrebbe ancora cambiare il mondo e forse non riesce a cambiare nemmeno se stesso. A chi frega di salvarlo il mondo? Salvarlo da noi stessi.
Rosario Lombardo