“Jocati, jocati, tantu ccà nda vidimu nui”, giocate, giocate, tanto qui comandiamo noi. Con questa frase, sibilata da un dirigente avversario, sono stati accolti in una trasferta i giocatori che entravano in campo, inalberando orgogliosamente i nomi di assassinati dalla ‘Ndrangheta (Lea Garofalo è il 9, Francesco Fortugno l’11, tanto per fare due esempi). La squadra è quella di calcio a 5 della Seles di Gioiosa Jonica, piena Locride, che milita in serie D. Seles è un acronimo impegnativo, Scuola Etica e Libera di Educazione allo Sport.
«Noi non ci preoccupiamo di chi c’è dall’altra parte – dice il d.s. Rocky Stefanelli. Eventualmente il problema è loro. Noi non badiamo al risultato, ma alla diffusione del nostro progetto».
«Portare i nomi delle vittime sul petto è un onore» aggiunge il capitano Salvatore Agostino. E allora scopriamolo questo progetto della Seles. Ce lo spiega Francesco Rigitano, 46 anni, sposato, 3 figli, presidente dell’Associazione don Milani che, oltre a gestire due terreni sequestrati alla ‘Ndrangheta, è la “mamma” della Seles. «Un progetto che l’associazione Libera (quella di Don Ciotti, ndr) e il Csi hanno voluto insieme a noi. L’idea è quella di dare una risposta alle emergenze educative e del territorio, così siamo entrati in punta di piedi nel fantastico mondo del calcio. Insegniamo non solo che bisogna contrastare le mafie, ma anche come farlo. E’ necessario un cambiamento culturale, perché non bastano le denunce, servono anche le risposte. Non è facile denunciare mafia e usura, ma l’importante è avere la coscienza tranquilla. La maglietta con i nomi delle vittime? Un modo di mettere in primo piano la nostra lotta. Minacce e intimidazioni non ci fermano, non gli atti vandalici al nostro centro sportivo e neppure 6 proiettili caricati a pallettoni depositati all’interno del nostro chioschetto, un messaggio».
Fabiana Sainato è una delle educatrici che gestisce l’attività post allenamento in un’aula ricavata nel vecchio mattatoio comunale: «I ragazzi passano metà tempo sul campo di calcio e metà impegnati nel percorso etico. Lo proponiamo ai bambini dai 4 anni in su per insegnare valori molto semplici, come il rispetto e l’importanza del vivere insieme e dell’aiutarsi. Ai più grandi spieghiamo anche i diritti e i doveri dei bambini dentro e fuori il campo, l’amicizia, la solidarietà, l’umiltà, l’accettazione della sconfitta che è un’occasione per ripartire migliorandosi. Parliamo anche di bullismo e di violenza. Un vero e proprio codice del fair play che proponiamo, in versione adeguata, anche ai genitori». Ma i riscontri sono positivi? «Certo, pensate alla risposta di un bambino alla domanda cos’è la mafia: sono persone che si trovano di notte per decidere la vita degli altri». I problemi sui beni confiscati sono un altro capitolo. «Il nostro centro sportivo – torna a spiegare Rigitano , che ospita 160 ragazzi dai piccoli amici egli esordienti più la squadra di calcio a 5, costa in utenze (quella della luce elettrica è molto cara), assicurazioni… almeno 70.000 euro l’anno. Noi facciamo fatica, perché non tutti possono pagare la retta di 20 euro al mese e non respingiamo nessuno. Era necessario che il campo fosse in sintetico. Meno male che siamo riusciti a realizzarlo grazie anche al contributo della Fondazione Cannavò. Però il terreno non è nostro. L’Arsa, agenzia della Regione, lo voleva vendere per circa 200 mila euro. Noi chiediamo che venga assegnato al Comune, non vogliamo averlo in proprietà, deve essere della comunità, perché è stato già pagato con i soldi pubblici e quando avremo finito la nostra missione al pubblico deve ritornare». «Stiamo lavorando con la nuova giunta regionale per risolvere il problema – garantiscono all’unisono il sindaco Salvatore Fuda e l’assessore Luca Ritorto .
Nel terreno vicino dobbiamo costruire una scuola, tutto ciò stopperà il tentativo di speculazione edilizia sull’area e che per un certo periodo di tempo ha minacciato la zona».
Un progetto sociale legato anche all’immigrazione: perché questa è una terra molto povera, «in cui racconta Francesco Rigitano si vive con le pensioni degli anziani, che finiscono con il mantenere anchei giovani. Di industrie non ce ne sono e questa è una terra di emigranti. Ecco perché per noi è normale accogliere tutti, anche chi viene dall’altra parte del Mediterraneo». Questa è terra di sbarchi. «Io sono arrivato dal Gambia con la barca, sono sbarcato in Sicilia e poi mi hanno mandato qui – racconta Hamadu Sowe, 24 anni . Sono stato accolto molto bene, mi hanno fatto lavorare 4 mesi. Ci fanno anche giocare a calcio (sullo stesso campo in sintetico, ndr) e per noi è molto importante». «Nessuno è escluso – riprende Rigitano – il nostro compito è sostenere i deboli».
(Tratto da La Gazzetta dello sport del 24 Dicembre 2014)