Il realismo della macchina da… (p)resa. L’autocitazione come supremo atto di modestia.

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Nel principiare la fabula, ad incominciare dalla fatale incertezza di fondo sul come raccontarsi, sul come raccontare, spropositata la perplessità sull’opportunità di narrare d’alcunché, che non l’ovvia considerazione sul fluire delle stagioni, la riproposizione a scivolare in mezzo, di soppiatto, del già detto. Una storia da inventare, rievocare, dare a bere. …Scrivere? Sì, poteva scrivere. Non ci aveva mai pensato con dovizia di particolari, in verità. «Un giorno forse, come tramonto al ritorno che s’affievolisce, fulgido in petali di speranza a dismisura. …Sputa! Sputa n’cielu ca m‘baccia ti venari!» Poi, come tacita neve soffice a venir giù, fredda ed impalpabile l’asseverazione: c’è pur sempre qualcosa da raccontare. Una frase, doveva pur iniziare da una frase, breve, banale, senza orpelli. Un imbrattacarte indefesso, nel saggiare con abilità da contrabbandare, a rimasticare in testa linee e spirali ed algoritmi innocenti, nell’appuntare con serietà il deliquio d’un tormento: «…bisogna che tu scriva. Almeno questo, iddio santo!»…

Tra un ricordo ed un auspicio ad insinuarsi melliflua la trama esile, sommessa ad affiorare inaspettata, per sfuggire alla costrizione d’essere solo un abbozzo-bozzolo in balia di chimere, archetipi, possibilità, dicerie, non so. Con rapidità solerte nient’altro che afferrarlo il dono immiserito, con l’ingenuità delle mani giunte ed un fare da questuante. Le parole da evitare, centellinare, di cui abusare. Una frase via l’altra. La memoria random, l’inventiva, la menzogna, …ed eccolo il vostro grafomane indefesso! Assordanti le parole, a solleticare il glande della tua malcelata presuntuosità, sfacciatamente avverandosi il proposito: a r’acinu a r’acinu si fari a macina. …Finta, assurda, fottuta modestia! Con l’insistenza d’una disposizione sdolcinata nella voce, colma di commiserazione, a chiederti: «ed ora? Ora che farai di te?» Un sogghigno mordace ed una risposta insincera sufficiente a transitare oltre. «Un giorno te ne pentirai. Allora sì che saranno guai, stupido ed avventato ragazzo mio!» …Far finta d’avere altre occasioni e possibilità infinite. Facile decidere per i giorni a venire, quando la risolutezza d’una qualsiasi decisione potrebbe risultare imponderabile ad un’introspezione più attenta.

Un venerdì per nulla a caso dal calendario di metà giugno. Arroventato rosso fuoco, l’orizzonte ad insanguinarsi fino a sfiorare l’insicurezza. Nell’ora settima dal mezzogiorno, nella piazza, il calpestio di piedi forsennati nella frenesia stracca dell’andirivieni. La fauna stanziale soavemente ad attardarvisi come in un improbabile dì domenicale. La folla a stuoli, a grappoli, a spasso. Anatomiche fisionomie in ghingheri. Felpe. Fuseaux. Cravatte e giacche. Gonne plissettate. Pantaloni senza pinces, le tasche posteriori chiuse da bottoni. Capi in popeline di puro cotone 100% délavé. T-shirts wrangler, casucci, sergio tacchini, lacoste, coconuda. Pieghe, risvolti, cuciture. Vanitose chincaglierie. Tutta giovialità ostentata, nella piazza affollata, in volata, all’inverosimile. Le sobrietà. Le civetterie. Le indicate col dito estrosità. Sferzante il parlottio. In hac lacrymarum valle la contagiosa spensieratezza del ritrovarsi non soli. Le meschinità. L’annoiato benessere. La paura dei ladri, degli extracomunitari, dell’uomo nero. La famiglia, gli amici, la porta di casa blindata, la macchina, i soldi, …pienamente soddisfatti di sé, perdinci! Al crepuscolo, a raffigurare la sintesi d’un perfetto scorcio temporale per il palesarsi della vicenda, lumen dell’apprestarsi di qualsivoglia vicenda. «Parrari. …Parrari!? U tiempu, chianu chianu, addi puri passari. » Il braccio pesante sulle spalle, in disparte, ognuno a sussurrarti nell’orecchio la propria comprovata visione del mondo, la propria consumata filosofia di vita e quelle quattro cosette che avresti dovuto sapere e che tu giuravi o facevi finta di non sapere, per non suscitare rancori o dispiaceri in chi si prendeva la briga di spiegarti, per tua fortuna, come andassero per davvero le cose del mondo. Vaporosi monologhi a spron battuto, …ché ognuno aveva la sua da spifferare, sputacchiando, sbavando, bestemmiando, mordicchiandosi la lingua per l’impazienza, qualora zittiti lì per lì. E se pure all’occorrenza si diceva: a parrari a chini un sentiri e a futtiri chini un stari ghè perdita i tiempi, stare ad ascoltare nessuno ci pensava, per via di acquisite ipoacusie, …ché da quell’orecchio proprio non ci si voleva sentire o semplici distrazioni. Così moralmente riprovevole la disposizione screanzata degli altri a toglierti la parola, sul più bello, di proposito. Amenità da snocciolare, screzi, il punzecchiarsi. Estemporaneo sadismo ecumenico, un dolce far niente, comunque un copione da rispettare. Con immutata e tediosa foga, identico trasporto, a disquisire d’ogni cosa: cu u tiempu, certi voti, un vo’ proprio passari. Senz’indugio o perplessità a fare i conti con la cigolante etica paesana, ogni cosa a tenere d’occhio ed ammorbare, imponendoti di non sottratti al melodioso tormento, perché nel raccontare e turlupinare qualcosa deve pur rimanere sospeso, gelosamente salvaguardato o nascosto, per l’innata propensione ad ottemperare al precetto: un mangiari quantu ni tieni, un diri quantu ni sa. …Il tempo, mannaia o non mannaia, deve pur passare!

L’incipiente estate implacabile ad incendiare colline e valli. Troppo il caldo. Il sudore da berselo a sorsi. Le sere fresche di brezze leggere a rompere l’incedere d’eterne giornate assolate. La tregua di cui approfittare con la precisione degli orari canonici: ogni sera alla stessa ora. Impossibile ritrarsi. Impossibile sfuggire. Di crinale in crinale mammelle gravide di vita. I colori per nulla ovattati di terra bruzia e rigogliose le vigne. A grappoli pampini d’un verde tenero, diafano. Gli acini acerbi già grossi ma ancora acerbi, da schiacciare tra pollice e indice, aspri troppo aspri per tosto trangugiarli, per gustarli a bocca piena. I caseggiati abbarbicati come testuggini fra ulivi fronzuti. Con puntiglio a raffigurare: personaggi, situazioni, contrade, intervalli. A pensare: vorrei scrivere come stephen king. Un emulo di sana pianta, un ghost-writer mentecato ad infittire la schiera. Dilaniato fra la perentorietà del dover far qualcosa e l’esitazione del non c’è nulla da fare. Le parole ad affiorare spoglie, a specificare differenze ineccepibili, a congetturare affinità irriducibili. Appuntare ogni cosa con mano ferma. “…Gli uomini sono assolutamente innocenti nell’uso delle loro espressioni o parole ricorrenti. Non immaginano quanto si tradiscano quando cianciano così innocentemente.” A tratti lo stridere sul foglio ed il segno a segmentarsi incerto: fatica inutile! …E se poi? Se poi cosa? La fatica di decidere d’alcunché, di soprassalto l’inquietudine ad ansimare in un cheirospasmo: niente è facile, niente può essere facile. L’impossibilità a tacere delusioni. Timori e miraggi lembi della stessa pagina. Uno scribacchino, un grafomane, uno stronzissimo imbrattacarte. Il romanzetto, l’operina morale per ingegnoso dispetto o per diletto. Per… di che? …difetto. Le chef d’œuvre del cazzo! A chiedere: «che novità?» Come se ci dovessero pur essere delle novità, per forza novità, qualsivoglia novità. «Nessuno che legga, mon ami. Figurarsi star dietro ai romanzi. Favole. Querulomanie. Annotazioni autoreferenziali. Inutili orazioni. Insignificanti sforzi per un nonnulla. Si trovi un diversivo, mon ami!» Quali novità ci potevano mai essere? …Miscjcati ccu ri miegli i tia e facci i spisi. Un cappio al collo, un’arma puntata alla tempia, ad un passo dal tirare le cuoia, un sortilegio per non contrariare gli astri o il destino. …Domani. Après demain, forse. Cras credo hodie nihil. Quod hodie non est cras erit.

Qualsiasi luogo come la quintessenza di nessun luogo. Il borgo natio una misera cacca di moscerino sul globo terracqueo, sperduto ed insignificante periferia del mondo. I giorni tutti uguali, pieni di niente. Impavidi a sopravvivere a se stessi. A fare ogni cosa fra le quattro mura di casa: la disciplina, le regole, la morale, …la pasta fresca, la salsa di pomodoro, il bucato. Ad ingozzarsi. A frignare. A sbattere la testa. A ridere, a crepapelle, di tutto, per un nonnulla, a vuoto. A carponi. A cuccia. In ginocchio. Al riparo. A lasciarsi invecchiare. Ad aspettare la morte. «Ccà mafia un cci nnèri. Ccà si campari fin’a cent’anni, si diu vori.» A cosa fare se non piagnucolarsi addosso. Ad inseguire ragioni, itinerari, mete. Come se nulla avesse senso. Niente a salvare se non scrivere. A sgozzare la speranza, a mani nude, con tutte le proprie forze, senza tregua ad incularsi a vicenda. Figure rimalmezzo e vicende a pizzichi e bocconi a srotolarsi nella trama in piena. Il contorno, il succo, inesplicabile l’incespicare. Fatti, nomi, qualunque riferimento a persone o cose realmente esistenti da considerarsi il frutto d’una fantasia limitata, sciapa aneddotica a buon mercato. La weltanschauung. Lo zeitgeist. Una congiuntura biograficamente databile. Personaggi maledettamente improbabili da sistemare nell’intricata texture dell’assurda vicenda da dipanare. La signorinella tutta culo e tette, che al solo immaginartela ti caleresti giù le brache. Lo scudiero, unghie mangiucchiate e pomo d’adamo prominente. L’irsuto vecchio professore sornione. La donnetta impellicciata. Un farmacista. Un barista. Il tuo commercialista. Con improntitudine caricaturale abbozzare figure altere, goffe, facce smunte e rubiconde, corpi storpi, nasi aquilini, camusi, menti sfuggenti, nei esagerati, barbe rade, zigomi pronunciati, la fronte spaziosa, sopracciglia folte, l’occhio smorto, capelli sciolti, raccolti in chignon, toupet, a crocchia. Il robert de niro di c’era una volta in america. L’alberto sordi della commedia all’italiana. La gillian anderson alias dana scully di x-files. Il clint eastwood di ispettore callaghan: il caso scorpio è tuo! Whoopi goldberg. Figure pretestuose sbiadite al punto giusto. Misantropo e ossessionato professeruncolo, anarco-individualista con eccessi di moralismo di stampo comunista a priori, oppure ingegnere inguaribilmente ottimista, oppure, …perché no, confondere le acque, farsi partecipe d’ognuno, disprezzarsi e disprezzare, celarsi anima e corpo dietro la faccia della più improbabile delle comparse nella costruzione metodica del proprio alter ego: don giovanni, giovanni castorp, giovanni drogo, oblomov, un omuncolo qualsiasi. Un fottuto romanzo senza tante menate narcisistiche, autoincensamenti, piagnistei. Volti e corpi telegenicamente irreprensibili. Le fattezze di clint eastwood, a menarsi l’uccello nella jaguar nel parcheggio dietro il supermercato sma. Un nick drake rinato a nuova vita, a sbuffare e sbraitare, a mandare al diavolo le regole del show-business. Un john coltrane strafatto d’eroina o semplicemente intento a scaccolarsi il naso. Come thelma e louise a fare l’autostop sul tratto montalto-rose–cosenza-nord dell’A3 sa-rc, chiuso al traffico in direzione reggio calabria per lavori in corso. Dietro ogni personaggio, qualche tratto ben marcato della propria indole, esagerato, del tutto divergente. Un monsieur qualsiasi, passo malfermo, una bottiglia via l’altra a scordarsi del mondo. …Un ottimista impenitente, altroché! La faccia di chet baker, ogni mattina, alle otto in punto, ad elemosinare l’acquasanta. Funny valentine a disegnarsi leggera nell’aria. Un hobo, un flâneur, un clochard, un povero diavolo ubriaco fradicio, occhi bassi, malferme le gambe. Ad un tiro di sputo dal rifornimento tamoil, sotto il divieto di sosta sul rettilineo tra la caserma dei carabinieri e le case popolari. A sorreggervisi come un improbabile homeless dal passato americano, ogni mattina alle otto in punto. Proprio sul tratto di strada ribattezzato via madre teresa di calcutta con un guizzo di prontezza di spirito encomiabile, grazie al voto unanime dell’intera assemblea comunale. …L’attendibilità, ecco! Tratteggiare con precisione maniacale un’improbabile whoopi goldberg a far boccacce. Dana scully a bestemmiare su dio e gli extraterrestri: …I want to believe, una sega! La vis comica di alberto sordi e le sue stronzate da italiano medio fino alla punta dei piedi. Janis joplin, grassa e sfatta nel sofà davanti alla tivvù, a giurare e spergiurare che di cantare a non fregargliene più niente. Jimi hendrix accanto, a sbuffare ed a pigiare a caso il telecomando: «ma quando cazzo inizia l’eredità?» La complessità della trama e l’attenzione del lettore da mantener desta. La dialettica del calcolo e la soggezione agli ideali. La cruda realtà e sogni dagli entusiasmi declinabili. Misantropie ed afflati interessati. Il vissuto a soffocare ed il presente a tediare. Pregiudizi e lamentazioni in uno scorrere di quotidiane espiazioni ed espettorazioni. Tex willer un ago infilato nel braccio. Robert de niro maciullato in un’irriconoscibile berlina in fondo ad una scarpata. Il sollievo di lasciare tutto al caso. Senza scopo. La materializzazione delle parole e la trama a prender corpo. …Il plot? Nihil est praeter individuum. …Io! …Io! …Io! Un monumentale io onnipresente a dettar legge. Una monumentale presa per il culo. Ehi! …Ehi, mio spudorato e bastardo lettore del cavolo, hai colto l’ironia? L’ironia, l’hai colta? Le sottolineature, a volte, a non sortire affatto l’effetto sperato.

Nella sua vita nemmeno una sbronza. Avrebbe rimediato al più presto. Megane gale dalla tivvù a strizzargli l’occhietto promettendogli la lubricità di quel suo gingillo high-tech pronto all’uso. Uno scotch, un cognac a 5 stelle, della buona grappa invecchiata, un whisky, qualcosa di forte da buttare giù senza nemmeno assaporarne il gusto. Un ballantine’s? Un macallan? Un chivas regal, blended schotch whisky, aged 12 years, 40% alc./vol.? Una schifezza qualsiasi. Direttamente dalla bottiglia. Le dita in bocca per poi vomitare tutto. La sensazione d’essere solo un perditempo. Perso. Stanco. Sul patibolo. Per nulla felice. …Un’autobiografia, ecco! Senza stare a inventare il chissà che, il chissà cosa, il chissà come. Ascisse. Ordinate. Interpolazioni. Lo spazio non euclideo di geometrie siderali. Sfumature. Mezzetinte. Nuances. L’ambito. Il pathos. L’allure. La giusta messa a fuoco. L’autocompiacimento. Lo smacco. Mnemonico l’assentire. Infido l’ardire. Un’autobiografia senza lambiccarsi il cervello. Fregarsene del rischio dell’agiografia, del santino. …Bestia che sei! …Sai che gliene può fregare ai lettori del cavolo, delle eroiche gesta, di concupiscenze, parapiglia, tiritere, timidezze adolescenziali e sofferenze dell’anima, dell’amore avuto in sorte e delle scopate millantate? …Una sega! Ecco, cosa gliene può fregare. …Abbiate compassione del vostro peter pan, abbiatela tutta la vostra indulgente compassione, esimi lettori del cazzo! Che voleva saperne dello scrivere e di tutta la letteratura della misericordia l’illuso john fante? La vergogna dov’era che se l’era sotterrata? L’autobiografia del signor nessuno, del comunista di fine secolo, la rêverie dello scrittore mentecatto, da scompisciarsi dal ridere. Trent’anni di vita consapevole sono un periodo lungo, scriveva elias canetti. Trent’anni vissuti da sveglio, continuava. …Già. Ed egli, l’imbrattacarte indefesso, lo scribacchino impavido, il grafomane impenitente, gli ultimi trent’anni della sua vita? Ntra nu munnu oramai a ra babbulabà, trent’anni di un dormiveglia sincopato, dilatato, mpicatu ppi ncanna. Inutile continuare ad interrogarsi, distribuendo a caso imprudenze, torti, macchie, mancanze, falli, negligenze, colpe. A E I O U /ciuccio a bbestia chi si ttu/ cumu a tia un cci nni su’ cchiù! Il non detto, il sottaciuto, la menzogna, nel disperato anelare all’abbraccio fraterno, all’ammonimento del padre, all’affetto d’una madre, pensava, con la convinzione delle sue poche o tante certezze. Il riuscire ad interiorizzare gli imperativi. Il contemptus mundi. Il declinare dio. Un pugnale ghermito dalla mano del cuore, dietro le spalle, la destra sfrontatamente ben tesa. La civiltà umana una tragicommedia tra lotta e predominio, pensava. Produzione e riproduzione ancorati al trend favorevole dell’economia. Il forcipe e la roncola. Il crucifige e l’apostasia. L’anestesia. L’atarassia. L’eutanasia. Le combines. Les adieux. La working-class in paradiso. …Tank. Tank. Tank. Thanks! …Thank you!

Bisognava che scrivesse. Scrivere, sì…, non ci aveva mai pensato con dovizia di particolari in verità. Mancanza di determinazione, ritegno probabilmente. Chillu rannatu chjuovu, rovello, di chiedersi continuamente: ma chini tu fa fari? La mano ad impuntarsi. A se stante attardandosi a meditare. «U buscijaru, aviti vistu u buscjiari? Sempi a pijari cazzi ppi lampijuni! Ah, chi si chjangissi l’ossa tra na cascia e n’atra!» Un imbrattacarte allo sbando, a ripromettersi di marcare gaffes, topiche, lapsus e spropositi. Un indefesso scribacchino sul precipizio d’una storia da inventare. Nessuna originalità per un escamotage buttato là. Tirare fuori tutto. Fare i conti con i propri ricordi. La pagina come il confessionale, il lettino traballante dello psicanalista, l’amico fidato. Un’autoterapia fai-da-te. La versione addomesticata, semplicemente più tollerabile. …Tutta cellulosa sprecata! Una storia da sgranare fra tentazioni noir ed inclinazioni postmoderne, in bilico. Michel houllebecq, don de lillo, antónio lobo antunes, j.t. leroy e, mio stupido impostore, ancora chi cazzo altro in mente?

Lo spazio a tingersi dell’eutanasia del giorno. Finalmente notte. Un’altra notte insonne. L’immaginazione al ralenti. Il fermo immagine. Lo stacco.

Rosario Lombardo