Italia e tv, binomio di qualità?

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Nel 1925 nasce il primo prototipo funzionante di televisione, ad opera dello scozzese John Logie Baird. Negli anni, questa scatola dall’aspetto rudimentale e piena di fili all’interno arriva anche in Italia nel 1954; anche se già era presente, dieci anni prima, la RAI, che seguì all’EIAR e all’URI. Il suo potenziale è facilmente percepibile, un emanatore d’influenza che avrebbe segnato l’intero ventesimo secolo, e quello dopo. Da allora generazioni di famiglie del bel Paese, ma ovviamente anche oltre, sono state legate indissolubilmente a questo oggetto, tanto da farlo presto diventare una compagnia per la cena. La televisione infatti assume pian piano questo ruolo di aggregatore familiare, anche se il termine non sembra del tutto consono per quello che è un qualcosa di inanimato.

Non avendo, a parte radio e telefono, altri mezzi di comunicazione ma soprattutto di condivisione di massa, la sera era il momento perfetto per sedersi a tavola assieme alla famiglia e fruire della scatola, a scapito però dei dialoghi che si era soliti fare a fine giornata. E questo è uno degli aspetti negativi che, negli anni, ha contribuito all’isolamento mentale del singolo dalla famiglia; i contenuti e i canali in aumento hanno certo fatto la loro parte.

Ma già con la RAI stessa si ha un radicale cambiamento, non solo essa diventa una colossale fabbrica di merce di consumo, bensì una potente finanziaria in grado di determinare una forte presa su ampi settori di interessi economici; per non parlare degli abbonamenti: si parte da 88.118 nel 1954, fino a 4.284.889 nel 1963. Nel decennio 1960 – 70 la RAI intende creare un pubblico il più possibile omogeneo, con una programmazione che ruota attorno a tre aree tematiche: lo spettacolo leggero e di varietà; la musica leggera; i programmi culturali e di informazione. Proprio lo spettacolo leggero ha una forte valenza, nel senso che quella era una tv dai contenuti leggeri, istruttivi e sobri, ma mai volgari. Con tutti i contro che potevano essere annessi all’ambito familiare, la tv aveva un forte impatto educational. “Lascia o raddoppia”, “Carosello”; “Il sogno dello zio”, sono solo alcune delle trasmissio

ni che hanno fatto divertire milioni di italiani, con le loro battute leggere e intermezzi pubblicitari. Un noto cambiamento arriva negli anni’80, con l’ingresso delle tv private: Tele Milano, Canale 5, Fininvest, per poi arrivare all’attuale e principale concorrente RAI, Mediaset. Da qui in poi per il sistema televisivo inizia l’era della privatizzazione, e sembra strano dirlo, dell’isolamento. Dopo Mediaset prolifereranno decine di altri canali di gruppi privati, oltre ai servizi a pagamento: pay TV, servizi on demand o svod (subscription video on demand). Arrivando ai giorni nostri, oltre a una serie di emittenti altamente tematizzate, troneggia l’oligopolio delle “big three”: Netflix, Amazon Prime Video; e Hulu; fuori dal cerchio Sky, ma non per questo poco importante. Pionieri della tv in streaming e di un settore in continua crescita, testimoni di una società, e quindi anche di un servizio televisivo in continuo mutamento.

Se già la tv originaria aveva iniziato il suo processo di isolamento del singolo individuo dal nucleo familiare, la realtà di oggi conferma l’apice di tale isolamento. Perché non cercare quindi una soluzione che cambi l’accezione di società, o le dinamiche dei dialoghi familiari, partendo proprio dalla rivalutazione dei contenuti televisivi? Quanto siamo disposti a sacrificare relazioni che il tempo inesorabile porterà un giorno a termine, in nome del semplice “businness is businness”?

Francesco Sarri