L’emigrazione è Puttana? No, è figlia del milite ignoto

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Una delle discussioni fuorvianti, che da sempre ha accompagnato il processo e lo sviluppo dello Stato Italiano, è stato senza dubbio il dilemma dell’emigrazione, che da anni (o per meglio dire, da secoli) interessa il centro-sud Italia. L’emigrazione rappresenta da sempre un atto di speranza, d’illusione, d’ultima spiaggia e di comune disperazione in terre che non offrono nulla di nulla, e i tuoi figli, giustamente, vogliono mangiare non un’anatra all’arancia ma un tozzo di pane, il minimo sindacale della fame e della dignità. L’emigrazione rappresenta anche una forma di collante tra l’economia del mezzogiorno e il restante tricolore, con un giro di capitali non indifferenti. In fondo, è grazie anche agli emigranti, al loro sudore e alla loro abnegazione che si è verificato lo sviluppo d’alcune fabbriche nel cosiddetto “boom economico”.

L’emigrazione, dicevamo, rappresenta l’atto massimo della disperazione umana, in posti dove, al confronto, gli scenari scritti da Giovanni Verga, nelle sue novelle, sembrano dei paradisi terrestri. Altro che Mazzarò e compare N’toni e tutto il popolo dei Malavoglia! Fino a circa il 1970 in alcuni paesi si è visto di tutto: comunità insediate nei monti più disparati, con contadini che hanno vissuto come eremiti, l’educazione scolastica ferma alla terza elementare, il ciuccio come unico mezzo di locomozione e di valore, e le case/non case fatte da una stanza e quindici persone. Un mondo inconcepibile che nell’Italia meridionale abbiamo visto, e, nel confronto con altre mete italiane, si poteva affermare di essere in una dimensione lontana anni luce. L’emigrazione rappresentava un ancora di salvezza ed ha permesso ad intere generazioni uno stile di vita inimmaginabile. Il sud dell’Italia, purtroppo lo ribadisco a malincuore, rappresenta e rappresenterà una sorta di “handicap” ricevuto in eredità da fattori arbitrariamente non voluti da vecchi stili mentali.
Il sud ha fallito (o quasi). Di chi è la colpa? Del territorio, no di certo: le coste, i monti e i passaggi sono l’unico punto di forza che possiamo vantare e permetterci. Si fa fatica a valorizzare questi patrimoni, per cercare di portare una fonte di turismo e d’investimento, sia d’inverno e sia d’estate. Qualche colpa va attribuita a certi politici e alla mala politica, senza generalizzare tutto. Una mala politica che si è prostrata e inchinata ad organizzazioni criminali di stampo mafioso (cosa nostra, ‘ndrangheta, sacra corona unita e camorra, e chi più ne ha, più ne metta). Un giro che ha piazzato figli e nipoti (toh!) in posti pubblici di rilievo, in cui a volte si gioca con la vita di poveri Cristi innocenti, messi alla gogna per un sì o per un no.
Il mancato sviluppo meridionale ha avuto terreno fertile nel cambio generazionale. La prima generazione non aveva nulla e ha sofferto la fame; la seconda ha pensato a farsi crescere la barba e a divertirsi; la terza (la peggiore, in assoluto) ha tutto, ma non ha fame.
L’emigrazione resta una triste via di fuga per giovani laureati senza agganci d’alcun genere, per gente volenterosa e persona che vogliono sterzare la loro vita in una maniera positiva. E’ vero, l’emigrante va alla ricerca della felicità come un personaggio della tragedia Aristotelica, ma pretendere una dignità sociale è un obiettivo primario. Ma l’emigrante parte, ahimé, con il cuore gonfio di sconfitte e umiliazioni: questo lo si deve, anche alla poca valorizzazione dei talenti e alla superficialità mostrata verso i figli di nessuno. I giovani dal brillante avvenire non sono e non saranno mai, nel sud dell’Italia, dei profeti in patria: ci sarà sempre e soltanto una spocchiosa indifferenza verso un mondo onesto che lavora, e che vuole la giusta e meritata visibilità. L’Italia meridionale ha valorizzato figli di papà e amici d’amici: i risultati sono tangibili, purtroppo.
L’esempio più classico è dato dal compianto Mino Reitano, scomparso il 27 gennaio di un anno fa. Se il buon Mino a tredici anni non avesse fatto la valigia da Fiumara, borgo di mille anime, per arrivare ad Amburgo, non sarebbe arrivato quasi certamente nell’olimpo della musica. E anche in questo caso, possiamo ritornare alla mancanza dei profeti in patria, ma in questo caso sorvoleremo.
L’emigrazione, per qualcuno, era puttana: il senso di questa frase, forse, è noto a tutti, ma qualche dubbio sorge umanamente.
Affermando che l’emigrazione è figlia del milite ignoto, i dubbi sono aumentati: i dubbi di chi non vuol capire e di chi vuole vivere, sopravvivere e guardare con soddisfazione la sua anima riflessa allo specchio, lasciando terre aride di soddisfazione.
Quando emigra un ragazzo dobbiamo essere tristi perché scompare un’ennesima risorsa capace di contribuire al rilancio sociale della nostra realtà. Ma la vita ha bisogno di dignità e non si possono accettare sottomissioni alla idiozia di chi vuole volare basso e nel muso al rispetto della comunità in cui vive (amici, famiglia, partito, associazioni). Dovremmo avere una stella da indicare in alto alla gente che soffre a volte senza saperlo e grida un soffocato inno di riscossa e farla seguire con fiducia da tutta l’umanità sfruttata, o una bandiera per avvolgere tutti i nostri sogni e farne un’unica forza…oltre le utopie, verso la realizzazione di un sogno.
Massimo Maneggio