D’in su la collina, due-trecento passi e un fischio dietro casa, dominava solingo un olivastro. Non certo la collina di Spoon River. Neanche La collina dei conigli. La verde collina dei miei sogni fanciulli. Placida la sua frescura, d’estate, il riparo agognato nelle ore più assolate. La fragranza delle stoppie tutt’attorno, per la recente mietitura — “…che ne sai tu di un campo di grano?” — ad inebriarmi. D’agosto, improvvisi gli acquazzoni e l’arsura della terra a saziarmi. Graziata dalla falce, fatua avena sul limitare dei declivi. E nei pressi ginestre, chiappari, il lentisco, la desolazione amica d’un perastro. La paura dei serpenti a tenermi sveglio. L’ombra spessa e ospitale il mio conforto e ristoro. Di quell’olivastro secolare, contorto, nodoso, imperioso, scolpito dalla furia dei venti e dei temporali, non ne rimane oramai che un arboscello macilento e scorticato, simulacro e rimpianto dell’esuberanza d’un tempo. I frutti piccoli, la polpa scarsa e avara, la sua natura selvatica indomabile alla scure. Un inestricabile groviglio di propaggini, frasche, tralci, e una chioma d’impaccio eppure sbarazzina. Fra i rami cinguettii, polluzioni, il frinire inesausto di cicale e sogni inossidabili ad eclissarsi rapidi, anno dopo anno. In un giorno come altri, in un batter d’occhio, inatteso il fuoco, ad espugnare la sua invincibilità secolare. Impietoso, un taglio netto ed affilato sembrava averne cancellato per sempre il volto. Improbabile araba fenice miracolosamente risorse, esibendo rigogliosa la prodigiosa dote di rigenerarsi dalla ceppaia. Germogli, teneri virgulti, polloni, una pianticella informe. Ed ero già un brufoloso adolescente.
Oggi come allora, da quell’altura che domina la valle, il mio sguardo si leva attorno, “respirando brezze che dilagano su terre senza limiti e confini”. Ormai irriconoscibile l’olivastro, forse l’innesto d’un novello cultivar. I campi, le case, le strade e stradine, gli ulivi e le vigne ed innumeri altri artifici. Comincio a non riconoscerla già più questa vetusta media valle del Crati, che si mostra sì (im)mutabile. Forse per via dei fondi abbandonati, forse per via delle macchine agricole che sollevano il lavoro ma non eguagliano la cura dei contadini d’un tempo. L’imprenditoria agricola di nuovo conio ad implorare calamità, grucce, vigorosi diserbanti: …fa’ sordi e va’ ‘nculu a ru munnu! Forse per via delle coltivazioni in serra infestanti come la gramigna. Forse per via del deserto dell’area/alea industriale. Forse per via delle dimore, il mondo chiuso fuori dietro le persiane, il pattume via dall’uscio di casa direttamente giù in strada, fortini inviolati e pretenziosi, …picchì nissunu è cchiù fissa i tia. Riverbero manifesto di miseria interiore.
L’occhio s’abitua e dopo un po’ non vede più niente. “La luna e i falò” non è solo il libro di Pavese. Ciechi fra ciechi ognuno annaspa per proprio conto. La città territorio o il territorio defraudato, defedato, disorientato, che s’è fatto città: …dove cazzo sta la bucolica ed incontaminata campagna? Il Crati, il Mucone, il Duglia stancamente a vomitar fiele. La discarica di(s)messa di Croce D’Alli che rutta, sputazza, spetazza, scacazza. Cerchi il campanile a cui aggrapparti, dove stia il punto mediano e dove il margine nemmeno te lo chiedi più. Ogni anfratto, na cuoculicchia, un santo e la targa-ricordo d’improbabili gemelli crucchi . Perdi la bussola. Bisignano s’è apparecchiata a valle e strepita agonizzante senza freni o inibizioni: l’umiltà è una finzione. Campi consacrati e sconsacrati campisanti, edilizia a buon mercato nel culto di una morte per far cassa: …Deorum Manium iura sancta sunto, un cazzo!