“La vita non è che un rasentarsi di solitudini”, scriveva Corrado Alvaro. E lo sapeva bene quel ribelle scrittore calabrese, originario di San Luca, paesello dell’entroterra ai piedi dell’Aspromonte, di quanto, quella mentalità e quell’animo passionale e sanguigno potesse vivere e sopravvivere ai cambiamenti della storia, al passare del tempo, al susseguirsi delle stagioni, senza scalfire in nessun modo la tradizione di quel popolo meridionale. L’orgoglio, la forza, l’onore di gente nata, cresciuta e morta da sola, restia nel chiedere aiuto, dignitosamente rifiutatasi da sempre di accettare l’elemosina di uno Stato lontano dalle sue logiche e dinamiche interne, un particolare e pregiato dipinto d’arte antica collocato in una cornice in stile ultra moderno: i calabresi che fondono vecchio e nuovo per non dimenticare le umili origini che li hanno forgiati talmente bene da non permettere, ad una modernità che hanno dovuto costruire da soli, di scalfire i loro pilastri di uomini e donne capaci di aprire il cuore in compagnia e così forti da chiuderlo e chiudersi in se stessi e sopravvivere con dignità in tempi di solitudine. Facendo affidamento alla riservatezza e all’affidabilità dei cuori selvaggi di un altro altopiano calabrese, la Sila, Filippo Graviano, luogotenente di Totò Riina, trovò al suo capo un confortevole ed elegante rifugio per i tempi della sua latitanza tra i grandi pini ed i sapori silani, fiduciosi nel carattere tosto dei calabresi e nella loro millenaria avversione verso lo Stato, dimostrata soprattutto con l’uccisione del direttore del carcere di Cosenza. Quel garantito rifugio, alla fine, non è più servito alla Belva o, se si vuole, Zu Totò per i fan. Ultimo discendente della Cosa Nostra più sanguinaria e stragista è Matteo Messina Denaro detto ‘U siccu, super latitante diventato capo assoluto dopo l’arresto di Provenzano. Il curriculum del mafioso trapanese è molto ricco: fu parte di un gruppo di fuoco mandato da Riina a Roma per compiere appostamenti nei confronti di Maurizio Costanzo ed uccidere Falcone; uccise la moglie di un altro mafiosetto, incinta di tre mesi; attentò alla vita del vicequestore di Mazara del Vallo; si fece co-autore degli attentati dinamitardi a Firenze, Milano e Roma che provocarono in tutto dieci morti e 106 feriti; fu tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo che dopo più di 700 giorni di prigionia venne ucciso e sciolto nell’acido. Dal 1993 si rese irreperibile e cominciò la sua latitanza: attualmente nei suoi confronti vige un mandato di cattura per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materiale esplosivo, furto ed altri reati minori. Tralasciamo, se vogliamo, il fatto che Messina Denaro, un pluriomicida di Cosa Nostra, inserito nel 2010 nell’elenco dei dieci latitanti più pericolosi del mondo, riesce indisturbato a guardare la partita Palermo-Sampdoria con i suoi amici mafiosi palermitani, si potrebbe supporre una probabilità: e se, come il suo maestro Totò Riina, anche Matteo Messina Denaro avesse “chiesto” rifugio ai pastori della Sila o dell’Aspromonte? Come dimostra la partita, gli uomini di mafia sono troppo legati alla loro terra come alle loro origini e se rischiano l’ergastolo solo per guardare la loro squadra del cuore giocare, quale possibilità sembrerebbe più remota: latitare all’estero o rendersi “fantasmi” tra la propria gente? “Ché non ci si può rifare? Soltanto chi è morto ha finito. Noi altri abbiamo la pelle dura da affilarci il rasoio” (dal libro Gente in Aspromonte, Corrado Alvaro).
Se solo noi meridionali usassimo la mentalità forte e l’animo sanguigno per scovare invece che per nascondere…….la giustizia, dalle nostre parti, non sarebbe più solo un’illusione.
Federica Giovinco