PAOLO BORSELLINO E’ VIVO: NESSUNA BOMBA AMMAZZA L’AMORE!

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“Andate dappertutto, dovunque vi chiamano, a parlare del sogno di Paolo, fino a che qualcuno parlerà di Paolo e del suo sogno vostro fratello non sarà morto” (Maria Pia Lepanto, madre di Borsellino, ai suoi figli).

Questo è il giorno della rabbia, non della memoria. La memoria non serve a nulla se non è volta ad insegnare, a costruire, a cambiare. Paolo Borsellino, il 19 luglio 1992, era un uomo consapevole di ciò che stava per succedere. Aveva ricevuto l’assoluzione dai peccati, chiamando il suo padre confessore il giorno prima. Aveva preso, come non succedeva da molti mesi ormai, una giornata libera dagli impegni lavorativi, una domenica normale, l’ultima, in famiglia. Alle 5 del mattino riceve una telefonata dalla figlia Fiammetta dall’America, che vuole sentire come sta. Poi si accinge a rispondere ad un lettera poco cortese di una professoressa di Padova che protestava perché Paolo non aveva dato risposta di adesione ad un dibattito al quale era stato invitato, invito che, però, non ha mai ricevuto. Paolo risponde, o perlomeno cerca di farlo, ad una serie di domande contenute nella lettera, visto che non gli erano state fatte di persona. Arriva al punto 4 quando squilla il telefono. Erano le 7 del mattino, di domenica. Orario insolito per una telefonata. Chiamava Giammanco, il Procuratore capo di Borsellino al quale, Paolo, chiedeva da mesi che gli fossero assegnate le indagini di mafia a Palermo, anche perché il pentito Mutolo lasciava dichiarazioni esclusivamente a Borsellino. Giammanco non gli ha mai dato questa delega ma proprio quel giorno, NON SI SA PERCHE’, decide di esaudire questo desiderio con la promessa di firmarla l’indomani mattina. Dirà Giammanco che “i tempi sono maturi perché questa delega gli venga conferita”. Giammanco dirà un’altra frase che fece innervosire, preoccupare e arrabbiare Paolo:”Così la partita è chiusa”. Paolo replicò urlando:”NO, LA PARTITA E’ APERTA!” Borsellino non era un novellino e capì che qualcosa non andava affatto bene e che, quella telefonata, purtroppo non era casuale. Prese la moglie e chiese ai figli di raggiungerli a Villagrazia, fuori dai rumori della città. Paolo Borsellino sapeva che quello era diventato il suo ultimo giorno. Uscì in barca, fece un bagno, passò da suoi cari amici per pranzare e salutarli, contro il solito, molto, forse troppo affettuosamente per significare “arrivederci”. Di pomeriggio non chiuse occhio, la moglie Agnese troverà il posacenere pieno di cicche di sigarette. Erano le 16.30 quando Paolo uscì di casa per recarsi dalla madre, doveva accompagnarla dal dottore. Stringeva in una mano la sua valigetta portadocumenti, nella quale aveva riposto, come suo solito, un’agenda rossa che non lasciava mai. A scortare il magistrato erano una giovanissima donna, figlia, sorella e promessa sposa, Emanuela Loi insieme a quattro valorosi  uomini, figli, mariti, padri: Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina e Antonio Vullo. Entrò nella sua Croma blindata e, sgommando, partì verso Palermo. Nessuno, solo lui forse, sapeva che sarebbe stato il suo ultimo viaggio. Il loro ultimo viaggio, tranne per Vullo, rimasto “solo” gravemente ferito nel corpo e nell’anima.

Ore 16.58 e 20 secondi. Un boato. Una nuvola nera sovrasta via D’Amelio. Una Fiat 126 con 100 kg di tritolo fa a pezzi i corpi dei figli ai quali i genitori non hanno potuto nemmeno mettere un vestito o un paio di scarpe. In quella via, il 19 luglio 1992, la mafia HA PERSO. I rozzi corleonesi, i politici ed i magistrati collusi, i liberi professionisti corrotti, i Servizi deviati, pensavano di uccidere Paolo Borsellino, ignoranti del fatto che le sue idee erano resistenti al tritolo. Ignoranti del fatto che, quello di Paolo Borsellino era un “sogno d’amore”, “E NON POTRANNO MAI INVENTARE UNA BOMBA CHE UCCIDA L’AMORE” (Salvatore Borsellino).

La leggenda palermitana di Colapesce, già citata due giorni fa in occasione del terzo compleanno della Casa di Paolo a Palermo con parole in musica, vuole che un giovane di nome Colapesce, ottimo nuotatore, per mostrare la sua fedeltà al re, fu disposto a tuffarsi in mare pur sapendo di non fare più ritorno. Quando scese negli abissi, notò che la Sicilia si reggeva su tre colonne, due abbastanza rovinate, così decise di non riemergere più e rimanere lì giù a sorreggere l’isola. Colapesce sono Emanuela, Vincenzo, Claudio, Agostino, Eddie e PAOLO; Vito, Rocco, Antonio, Francesca e GIOVANNI.

“La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, SO CHE E’ NECESSARIO CHE LO FACCIA, SO CHE E’ NECESSARIO CHE LO FACCIANO TANTI ALTRI ASSIEME A ME E SO ANCHE CHE TUTTI NOI ABBIAMO IL DOVERE MORALE DI CONTINUARLO A FARE SENZA LASCIARCI CONDIZIONARE DALLA SENSAZIONE CHE, O FINANCHE VORREI DIRE, LA CERTEZZA CHE TUTTO QUESTO PUO’ COSTARCI CARO” (Paolo Borsellino).

Federica Giovinco