Nel parlare di Pippo Franco, nel ripercorrere i successi di cui è costellata la vita professionale del grandissimo comico romano, ci si concentra troppo spesso sul cinema. I premi della critica perMazzabubù… Quante corna stanno quaggiù? (1971), l’Oscar come migliore attore non protagonista per Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? di Billy Wilder (1972), l’Orso d’Oro a Berlino per Giovannona Coscialunga disonorata con onore (1973) e Ciao marziano(1980), il Leone alla carriera a Venezia dopo il suo La gatta da pelare(1981). Una fama, quella del Pippo Franco attore, che tende purtroppo a oscurare quella del Pippo Franco cantante, facendo gioco a chi ama appiattirsi sulle posizioni di suoi detrattori storici, come Rolling Stone e Il Mucchio Selvaggio. Ma è ora di riparare finalmente a questo torto, rendendo il giusto merito ai brani indimenticabili di quella che, senza scadere in facili esagerazioni, potremmo definire la più grande rockstar italiana di tutti i sempre […]
Sin dall’inizio, quella di Pippo Franco è la carriera musicale di un’artista di denuncia, una cesura netta rispetto al mercato discografico contemporaneo. Se “Licantropia” (1969) segna già la strada poi battuta anni dopo da John Landis, Michael Jackson e Dylan Dog, con “Cesso” Pippo si scaglia senza remore contro la lobby dei baci Perugina e la setta di quei tizi del Bangladesh con le rose nei ristoranti. L’amore delle canzoni d’amore è un falso ideologico e il teorema di Corradini è utopia da sconfitti, ci spiega l’artista con il suo ardito calembour a sfondo scatologico.
Del 1979 è l’altrettanto coraggiosa “Mi scappa la pipì papà”: Pippo riprende il contrasto generazionale già alla base di “Vedendo una foto di Bob Dylan” (1968): l’incomunicabilità padre-figlio qui, aggrappata a una furiosa e rimbalzante linea di basso, è cristallizzata nell’immagine del giovine pargolo che minaccia di farla nel cinematografo. La minzione come ricatto psicologico teso a destrutturare, in un tempio medioborghese quale la sala del cinema, le conquiste sociali del genitore, una posizione ricavata con sacrificio nel mondo civile; come simbolo delle scorie lasciate da un rapporto impostato nel modo sbagliato, frutto del disorientamento generazionale a causa delle coordinate imprecise offerte dal mondo contemporaneo.
Incredibilmente avanti è anche “Che fico” (1982), parodia ante litteram del fenomeno dei paninari, critica dell’estetica fine a se stessa dell’edonismo reaganiano della primissima ora, dell’ego ipertrofico alla Fonzie e dei comodi riflussi punk. Le spillette – simbolo del consumismo più pop – opposte al jeans di chi lavora, gli smanicati proletari da riviera affiancati al radiocomando da figlio della plutocrazia radical chic fine anni 70. L’arrangiamento riecheggia le avanguardie della musica elettronica, da Popcorn di Gershon Kingley ai migliori lavori di Vangelis.
Ma la sperimentazione artistica di Pippo non si ferma lì. In “Chi chi chi co co co” (1983) c’è l’ambizioso accostamento del movimento di rottura futurista alla logica rassicurante dell’aia, le bombe di Marinetti contro l’arca di Noè, l’impulso modernizzatore contro le basi della tradizione, ma anche l’incapacità dei giovani di affrontare il sesso non più debole nella nuova dialettica del corteggiamento. Sospeso tra questi poli d’attrazione, un ritornello che solo a orecchio poco colto può suonare infantile, in realtà sentito omaggio al Kirie Kirio dell’artista congolese Steve Banda Kalenga (1976), qui declinato in un mirabile esempio di synthpop.
Tra i tanti, luminosi successi venuti dopo (“La puntura”, “Pepè”, “Il ballo marocchino”), vogliamo chiudere questa – purtroppo deficitaria – carrellata su quello che potremmo considerare il brano simbolo della carriera di Pippo Franco, perfetto portato della sua cifra stilistica e al contempo emblema del messaggio di denuncia veicolato in tutti i suoi pezzi. “Pinocchio Chiò” (1984) è il j’accuse nei confronti dell’uomo moderno, bambino e burattino in balia del caso che si ribella alla matura matrigna che l’ha messo al mondo. Un capolavoro indiscusso e indiscutibile, non appannato dalla recente svolta teocon dell’artista. Un testo ancora una volta fortissimo e coraggioso, forse la più grande presa di coscienza del proprio ruolo nel mondo da parte dell’uomo contemporaneo dai tempi della scienza dei comportamenti di Thomas Hobbes. Masterpiece.