E si finì prima Briganti e poi Emigranti

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prima briganti poi emigranti
La questione meridionale esplose in tutta la sua virulenza allorquando alla “liberazione” del Sud da parte di Garibaldi si sostituì, quasi fosse il gioco delle “tre carte”, la “conquista” delle truppe piemontesi di re Vittorio Emanuele II, le quali procedettero, con mezzi che dire sbrigativi è un pietoso eufemismo, alla normalizzazione delle terre appena “liberate”.

Soprattutto per la Sicilia il risveglio fu amarissimo. Prima l’emblematico caso Bronte, dove Bixio riportò l’ ordine con sistemi da macellaio (inaugurando una prassi che si ripeté regolarmente negli anni a venire), poi la rivolta del Sette e mezzo a Palermo soffocata nel sangue dalle cannonate delle navi piemontesi e non solo di queste.

Un modo particolare per ringraziare particolarmente la Sicilia ed i siciliani accorsi in massa tra le fila di Garibaldi che permisero a quest’ ultimo la mirabolante liberazione dell’isola. All’iniziale e sincero entusiasmo per i promessi cambiamenti sociali ed economici subentrò in quei picciotti ben presto delusione e rabbia nel vedere come l’operazione unità nazionale significasse soltanto la brutale piemontesizzazione della Sicilia e di tutto l’ex regno del Sud. Agli amati-odiati cugini carnali napoletani si erano sostituiti i ben peggiori fratellastri piemontesi. Analogo amarissimo risveglio fu per la Calabria, le Puglie e Napoli con il suo hinterland. Al genuino entusiasmo per essere divenuti finalmente “Italia”, subentrò la rabbia e la disperazione di chi si sentiva non solo tradito nelle tante e belle promesse ricevute, ma che cominciava a soffrire la fame più nera. Ovviamente il regno delle due Sicilie soprattutto per i contadini e le classi sociali più disagiate non era il Paradiso in terra, ma almeno non si moriva di fame. Ma era questa la eventualità che si prospettava per le masse meridionali confluite a bandiere spiegate nel nuovo regno unitario. E ciò non era da addebitarsi alla “congenita povertà” del Sud. La verità era un’altra. Negli anni immediatamente dopo l’unità si effettuò da parte dei piemontesi, cinicamente e brutalmente, un immenso dragaggio delle ricchezze dalle regioni meridionali a favore di quelle del Nord. Basti pensare che appena dieci anni prima della liberazione fatta da Garibaldi, quindi intorno al 1850, nel regno delle Due Sicilie circolava una massa monetaria per lo meno tripla a quella di tutta la restante parte d’ Italia. Cosa che dové riconoscere, suo malgrado, Francesco Saverio Nitti agli inizi del Novecento, puntualizzando che nell’ex regno circolavano complessivamente ben 442 milioni di lire oro di fronte ai 148 milioni del resto d’ Italia. Altro che povertà congenita del Sud! Fin dal 1700 Napoli con tutto il territorio circostante aveva cominciato ad essere un’area di progressivo sviluppo con filande, cartiere, opifici manufatturieri ed industriali. Non a caso il 3 ottobre 1839, in quei luoghi, si era inaugurata la prima ferrovia costruita in Italia. Al tempo della venuta di Garibaldi vi era quindi un’ossatura industriale significativa, bastava portala avanti. Invece……..
In Calabria, per esempio , considerata dai Borbone,come la regione meno progredita, si erano conseguiti risultati non disprezzabili nelle attività siderurgiche, tessili ed estrattive. Nel settore siderurgico calabrese si registrava la presenza di grandi stabilimenti quali le Officine di Mongiana, la Ferriera di Ferdinandea, la ferriera di Cardinale e la Fonderia di Fuscaldo. Il ferro necessario a tale industria si estraeva nella stessa regione, dai filoni metalliferi del Monte Stella e Mammicomito. Così il carbone da legna, utilizzato nei fornelli di fusione, si ricavava dai vasti boschi locali di faggi e di abeti. Da manufatti usciti da quelle industrie era stato costruito nel 1832 il ponte in ferro sul Garigliano, opera senz’altro avveniristica per quei tempi e di cui esistevano isolati esemplari soltanto in Inghilterra, Francia ed Austria.

A proposito del ponte sospeso in ferro sul Garigliano c ‘è al riguardo un gustoso un aneddoto che merita di essere conosciuto, anche perché la dice lunga di quale tempra fossero i Borbone assisi sul trono di Napoli.

Dunque nel 1828 il re di Napoli, allora Francesco I, diede l’incarico all’ingegnere di stato Luigi Giura di costruire un ponte sospeso in ferro sul fiume Garigliano sul tipo dei rari esemplari allora esistenti in alcuni stati europei all’avanguardia nelle opere ingegneristiche, ponendo come unica condizione che le maestranze e il materiale da utilizzare fossero esclusivamente reperite nel Regno delle Due Sicilie. Gli inglesi, con la loro spocchiosa stampa, ironizzarono pesantemente sulle effettive capacità tecniche dei Napoletani di poter realizzare tale opera, che richiedeva inoltre una particolare flessibilità della lega ferrosa usata. Si arrivò perfino a compiangere i poveri sudditi quali future vittime di un ponte predestinato a sicuro crollo e tutto ciò solo per la voglia di primeggiare dei Borbone.

Effettivamente, a quell’epoca, i ponti sospesi in ferro presentavano ancora grossi problemi di stabilità, tanto che , proprio durante la campagna denigratoria della stampa inglese, crollò il similare ponte sospeso di Parigi progettato dall’accademico Navier. Così per sicurezza vennero chiusi anche quelli di Londra e dell’Austria. A Napoli i ministri reali si espressero per l’immediata sospensione dei lavori sul Garigliano e consigliarono vivamente” al re di dare disposizioni al riguardo, ma egli freddò tutti dicendo “Lassate fa ‘o guaglione” (lascia fare al ragazzo) , facendo intendere che egli nutriva piena fiducia nelle capacità del giovane Giura e che pertanto i lavori del ponte sarebbero proseguiti.

E Giura non lo deluse e risolse il punto debole dovuto alla resistenza del ferro, facendone produrre uno speciale (tipo nichel) proprio dalle fonderie calabresi di Mongiana. Intanto moriva Francesco I e saliva al trono di Napoli il ventenne suo figlio, Ferdinando I . Quando agli inizi del 1832 la costruzione del ponte terminò, i soliti giornali inglesi sentenziarono che non sarebbe mai stato collaudato, né tantomeno inaugurato, per timore di un suo più che probabile crollo. Ed ecco che il 10 maggio 1832 si presentò a cavallo, all’imboccatura , del ponte, il giovane re Ferdinando Il alla testa di due squadroni di cavalleria , di numerosa truppa e di 16 carri di artiglieria con relative munizioni e polvere da sparo. Sulle due sponde una folla Il trabocchevole di popolani assisteva un po’ timorosa all’evento. Ferdinando si piazzò al centro del ponte e, sguainando la sciabola, ordinò ripetute marce e contromarce alla truppa e al pesante carriaggio lungo la campata, mentre la cavalleria era passata prima al trotto, poi al galoppo e infine alla carica. La struttura resisté perfettamente a tutte quelle sollecitazioni, il collaudo era quindi riuscito in pieno. A quel punto la folla esplose in un delirio collettivo di balli e canti a beffa dei menagramo inglesi. Quel ponte rappresentava veramente l’orgoglio dei popoli meridionali. Esso svolse egregiamente la sua funzione per oltre cento anni, fino alle tragiche giornate del’ 43, allorché, dopo essere stato attraversato dall’ armata germanica ritirata con i suoi pesanti carri Tigre, fu fatto saltare dai genieri tedeschi.

La Calabria, considerata dai Borboni la meno progredita delle regioni che facevano parte del Regno di Napoli, primeggiava, oltre che nel siderurgico, anche nel settore dei prodotti tessili (si censivano oltre 11.000 telai), lanieri e serici (circa 3.000 occupati in questo settore), senza contare la notevole occupazione di mano d’opera dovuta all’estrazione della liquerizia e del tannino da castagno. Tutto ciò avrebbe dovuto avere nuovi impulsi ed incentivi al momento della cosiddetta liberazione. Ed invece, andò tutto a rotoli. Ma anche per i contadini calabresi non andò meglio. Infatti proprio in Calabria Garibaldi in un suo proclama, diffuso a Rogliano Il 1° agosto 1860, aveva solennemente promesso di restituire ai contadini l’ uso civico delle terre della Sila usurpate dai baroni, ripristinando un antico diritto (l’uso civico) peraltro sempre tutelato dai Borbone in tutto il loro regno contro le prepotenze dei signorotti locali. Ma Garibaldi per ingraziarsi le masse fece di più, oltre gli usi di pascolo promise l’esercizio gratuito di semina nelle terre silane e, per l’attuazione di quanto disposto, nominò governatore e quindi suo alter ego nella Calabria Citra don Donato Morelli. Ma appena Garibaldi lasciò la Calabria, le sue disposizioni furono immediatamente revocate dal Morelli. Garibaldi si era dimenticato o forse non sapeva che Morelli, come i Baracco, proprio in Sila aveva usurpato oltre 900 ettari di terreno demaniale. Logicamente l’entusiasmo dei contadini , che avevano permesso e agevolato (spesso partecipando attivamente) la “passeggiata” dei garibaldini in Calabria, si trasformò in cocente delusione. D’altronde la cosa, sebbene con le inevitabili varianti, si ripeté un po’ dappertutto nelle regioni meridionali. La delusione si trasformò presto in rabbia allorché, nella logica dello stato centralizzato alla maniera piemontese, arrivò una sequela di nuove impensabili tasse: dalla comunale a quella provinciale, dalla tassa di famiglia, alla odiata tassa sul macinato, per finire all’ancora più odiata coscrizione militare obbligatoria.

Si avverava così la profezia del giovane re Francesco Il di Borbone, Il quale lasciando Gaeta il 14 febbraio 1861 dopo una disperata resistenza, aveva detto al comandante Vincenzo Criscuolo: “Vicinzì, nun ve lascerann’ manc’ l’ uocchie per chiagnere” (Vincenzin, non vi lasceranno neanche gli occhi per piangere), e si riferiva ai pimontesi liberatori.
E così diventammo prima briganti e poi emigranti.

E la storia continua……..

Brano tratto da “ADDIO SUD” di Orazio Ferrara (volume reperibile in biblioteca comunale)
(Segnalato da: Meringolo Salvatore)