Solo un numero..

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Dopo tutto quello che ho passato, cosa vuoi che possa farmi un uomo con i guantoni?”.

Pugile suo malgrado per salvarsi la vita nei lager nazisti, peso massimo professionista in America fino al terribile k.o. Con Rocky Marciano, ossessionato in eterno dal ricordo dell’amata Leah: Hertzko “Harry” Haft detto “la belva giudea” non avrebbe mai potuto temere il ring, il suono del gong, i ganci che gli arrivavano in faccia. Quando colpiva i suoi rivali,e lo faceva con tutta la rabbia del mondo, non vedeva pugili ma gli altri prigionieri: quelli che, anni prima, era stato costretto ad atterrare in match mortali ad Auschwitz per sopravvivere (condannandoli implicitamente).

Questa è la sua terribile, tragica storia così come lo stesso Hertzko l’ha raccontata al figlio Alan: prima raccolta in una biografia, poi trasposta a fumetti in un intenso e commovente graphic novel firmato da Reinhard Kleist (Il pugile, Bao publishing). Da leggere e rileggere, tutti i giorni.

Hertzko, ricorda Alan, “era un uomo crudele e violento”. O forse lo era diventato. Un uomo al quale la vita aveva sottratto per sempre fede e pietà. Queste le sue parole, accompagnate dalle scene del treno che trasportava i prigionieri come neanche animali: “Fummo svegliati nel cuore della notte e ammassati in vagoni bestiame. Mi sembrò che il viaggio durasse una settimana. Senza niente da mangiare e da bere, in uno spazio minimo pervaso dal tanfo delle nostre feci. Alla fine si sentirono solo i moribondi esalare il loro ultimo respiro sotto i nostri piedi. Dio non esisteva più”. Non sarebbe più esistito.

Ebreo polacco di Belchatow, nato nel 1925, Hertzko fu costretto a condividere la terribile sorte della deportazione dopo che la Germania invase la sua terra nel 1939. E pensare che non sarebbe toccato a lui: s’era però sacrificato per il fratello Aria, facendolo fuggire e finendo così nelle mani dei militari tedeschi che gli avevano anche schiacciato le dita delle mani. Soltanto un pensiero tenne in vita Hertzko e gli restituì la forza di reagire: Leah. La bella Leah, ebrea anche lei, con la quale aveva progettato di sposarsi. Ma occupare la mente con il suo sorriso rassicurante era un lusso che non poteva permettersi, mentre ad Auschwitz continuava a perdere peso e umanità, ormai ridotto soltanto a un numero, 144738.

La salvezza, se così può chiamarsi, arrivò sotto le spoglie di ufficiale SS (del quale Hertzko non ricordava più il nome, chiamato Schneider nel libro) che lo prese sotto la sua protezione e lo convinse a tirare di boxe. Aveva fisico Hertzko. E cattiveria. Non erano infrequenti incontri di pugilato nei lager, anche di calcio e pallamano, ma la boxe “era una lotta all’ultimo sangue, uno spettacolo di puro sadismo”, come ricorda Martin Krauss nella postfazione. Gli ufficiali SS erano gli spettatori, puntavano sui combattenti e mandavano a morte gli sconfitti. Uomini ridotti a bestie, a uccidere per vivere. Hertzko non fu neanche il più famoso tra i pugili “ospitati” nei campi di concentramento (tra loro anche il campione del mondo dei pesi mosca, Young Perez), ma pochi hanno raccontato una storia come la sua.

Secondo statistiche non ufficiali Hertzko vinse 75 incontri per k.o. Nei campi di sterminio. Una belva, davvero. Una macchina di morte. Ma restare lì, e assistere anche ad atti di cannibalismo tra prigionieri, era morire ogni giorno di più. Quindi la fuga rocambolesca e fortunata, l’assassinio di un ufficiale nazista (al quale rubò l’uniforme) e di due vecchi (che avevano scoperto la sua identità ebrea). Gli americani che lo portarono in salvo. E l’America, dove un lontano zio fece da garante per il suo arrivo. Anno 1948. L’America. La boxe. Le luci dopo il buio. La ricerca di Leah, anche lei fuggita qui. Ma come trovarla? Un solo modo: diventare famoso. Avere il nome a carattere cubitali sui giornali. Farsi riconoscere affinché lei lo contattasse. Fu così che Harry, questo il nuovo nome negli Usa, cominciò la sua carriera di pugile. Da istintivo, senza tecnica, violento oltre ogni limite ma quasi incapace di difendersi. Vincente fino al k.o. con Lastarza che incrinò molte delle sue certezze. La fortuna stava per finire. E sarebbe stato il match tanto atteso, quello contro il grande Rocky Marciano, a chiudere tutti i conti. Prima della sfida all’Auditorium di Rhode Island, il 18 luglio 1949, si presentarono nello spogliatoio tre mafiosi: “Sarebbe meglio per lui se si buttasse a terra al primo round” dissero al manager. Finì davvero per k.o. e, benché non fosse un segreto il rapporto preferenziale della mafia con Marciano, non ci sono prove che anche quell’incontro fosse stato truccato. Potrebbe essere stata una scusa di Harry per giustificare una sconfitta bruciante.

Anche se la peggior sconfitta fu ritrovare Leah, dopo essersi risposato e aver avuto figli, tra i quali Alan, malata terminale di cancro, irriconoscibile ma felice di riabbracciarlo. Non ci sono vincitori nella storia di Kleist, non ci sono eroi, soltanto uomini. Soltanto un bianco e nero tragico e accecante. Il bianco e nero della “storia di un sopravvissuto”, questo il sottotitolo, che è vietato dimenticare.

(tratto da “La gazzetta dello sport” del 27 Gennaio 2015)