Il calcio e il modo di viverlo in Uruguay sono da sempre stati leggendari e in questa leggenda entra di diritto un personaggio come Abdon Porte.
Porte nacque gridando gol a fine Ottocento, quando in Italia non esisteva campionato. Giocò il football degli amatori, poi arrivò ai club più forti: prima il Colon, una delle mille squadre di Montevideo, alla fine il Nacional. Lo chiamavano El Indio, l’indiano. Abdon al Nacional diventò titolare, poi capitano. Era un centrocampista centrale, fisico, con colpo di testa fuori dalla norma. Parlava poco ma vinse tanto in poco tempo: il campionato nel 1912, 1915, 1916 e 1917, la Coppa America da riserva nel 1917, quando si chiamava Campionato Sudamericano. La nazionale però per lui era una parentesi tra una partita del Nacional e l’altra. Si racconta che sentisse il club come una famiglia, al punto di dire ai compagni: «Il giorno in cui non giocherò più, mi sparerò un colpo al Parque».
Il Parque è il Parque Central, lo stadio del Nacional, e per fortuna è ancora lì, al 2900 di Carlos Anaya. Ha il fascino dei posti antichi, non avrà mai gli sky box con lo champagne nel ghiaccio dell’Allianz Arena ma chi entra capisce che lì è passata la storia. Nel 1914, al Parque, il Nacional vinse la Copa Competencia: 2-1 al Peñarol nel Clasico, il derby intorno a cui ruota Montevideo. Quel giorno segnò anche Abdon Porte.
Il 1917 fu probabilmente il suo anno migliore ma il calcio cambia in fretta. Diego Lucero è l’unico giornalista che sia stato presente a tutte le finali mondiali dal 1930 al 1994. Ora non c’è più ma nella sua vita ha visto tutti, da Meazza a Romario. A chi gli chiedeva chi fosse stato il più forte lasciava in pace sia Pelé sia Maradona e parlava di José Nasazzi, il capitano del grande Uruguay del 1930, quando allo stadio si andava con i cappelli di feltro. La storia di Porte la raccontava così: «Nel 1918, i dirigenti del Nacional decisero che avrebbe giocato Alfredo Zibechi. Porte era stato messo in panchina. Sarebbe stato una riserva. Non poteva sopportarlo». Nel calcio dei tempi, le riserve andavano in tribuna. Non giocavano mai e Porte l’aveva detto, che cosa avrebbe fatto se fosse rimasto senza una maglia del Nacional.
Il 4 marzo 1918 giocò da titolare contro il Charley e andò alla festa della squadra. Dopo mezzanotte prese il tram che portava al Parque, entrò e si sparò un colpo al cuore. A centrocampo, il posto al mondo in cui si trovava più a suo agio. Il custode lo trovò al mattino. «Abdon aveva 25 anni. Lo aveva detto, al fratello. “Non verrò al tuo compleanno, vado a uccidermial Parque” – racconta oggi Juan Faccio, ex allenatore di Nacional e Peñarol, figlio di Ricardo Faccio che giocò nell’Ambrosiana-Inter -. Il fratello, che poi era mio nonno, pensò fosse una battuta».
Abdon aveva portato con sé uno scritto, in cui chiedeva perdono e pregava il presidente del Nacional di seppellirlo a fianco di Carlos e Bolivar Céspedes, due leggende del club morte di vaiolo. Fu accontentato. Sui fogli, anche una dedica:
«Nacional anche quando sarò polvere e nella polvere sempre amante. Non dimenticherò un istante quanto ti ho amato. Addio per sempre».
Chi altro è mai morto per una squadra di calcio?