Weisz e Sindelar, storie di un calcio contro il regime

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Árpád Weisz & Matthias Sindelar, quando l’odio tarpa le ali al Genio…

( a cura di Pietro Lirangi)

La cosa più brutta che possa accadere ad un individuo è l’essere dimenticato, cadere nell’oblio. Il mondo è pieno di persone degne di nota che, per vari motivi, sono state dimenticate per anni, nonostante avessero scritto una parte importante nel loro lavoro o nella storia: Árpád Weisz, a ridosso dello scoppio della Seconda guerra mondiale, fu fra questi.
Ungherese di Solt, fino ai trent’anni è stato un buon calciatore. I genitori erano ebrei, vicini a posizioni politiche socialiste, e lui durante la Prima guerra mondiale combatté con l’esercito austro-ungarico contro l’Italia e fu anche fatto prigioniero.
Da giocatore veste i colori del Padova, formazione allora militante nella massima serie italiana di allora, la Prima divisione. Weisz era un’ala dotata di tecnica e nel 1926 fu acquistato dall’Inter, ma un brutto infortunio lo costrinse al ritiro.

La storia a Bologna

Decise di allenare e dal 1935 al 1938 allenò il Bologna del presidente Renato dall’Ara. Al Bologna ottenne risultati importanti, vincendo due scudetti consecutivi con quello che divenne “lo squadrone che tremare il mondo fa”, oltre a vincere il Trofeo dell’Esposizione universale di Parigi, un antenato dell’odierna Champions League, battendo in finale gli inglesi del Chelsea per 4-1. Era il Bologna di Andreolo, Biavati, Sansone, Reguzzoni e Schiavio. Sotto le due Torri, Árpád Weisz divenne leggenda, anche perché pose fine al dominio incontrastato della Juventus, per cinque volte di fila vincitrice dello Scudetto.
Eh sì, Weisz è stato un grande allenatore, insegnò calcio diventando il porta-bandiera del “Sistema”, l’innovativo modulo che allora stava facendo proseliti in tutta Europa inventato dall’inglese Herbert Chapman. E ancora oggi Árpád Weisz rimane il più giovane allenatore ad aver vinto uno scudetto, aveva 34 anni, primato imbattuto da ottantasei anni. Tecnico preparato e attento ai giovani, fu lui a far esordire all’Inter un giovane Giuseppe Meazza.

Una storia durata sino al settembre 1938

Quella del tecnico è una storia calcistica durata fino al 5 settembre 1938, quando entrò in vigore il Regio decreto n. 1390 sui “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”, dove, in base all’art.2, “era considerato ebreo colui che nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione diversa da quella ebraica”. Dal quel giorno di Árpád Weisz non si seppe invece nulla, fino al 2007, sessantacinque anni di oblio.

La documentazione di Marani

Fu il giornalista Matteo Marani a ridare luce a questa vicenda: lesse libri, scartabellò documenti su documenti, confrontò vecchi registri delle scuole elementari di Bologna, sentì fonti primarie (persone che videro all’opera Árpád Weisz come uomo e come tecnico) e fece un’atroce scoperta: Weisz era morto nel campo di concentramento di Auschwitz il 31 gennaio 1944 in una camera a gas. Con lui morirono anche la moglie Ilona Rechnitzer (detta Elena), spostata a Vis nel 1929, e i due figli, Roberto e Clara, nati a Milano il 7 luglio 1930 e il 2 ottobre 1934. Prima di allora nessuno si era interessato alla sorte dell’ebreo Weisz, la cui unica colpa (per modo di dire) è stata quella di appartenere alla fede religiosa odiata dai nazisti.
Si scoprì che Árpád Weisz non fu esonerato dal Bologna, ma fatto dimettere dalla carica di allenatore il 22 ottobre 1938 e dovette fuggire dall’Italia, essendo “ebreo cittadino non italiano” dal 22 agosto 1938.

Il 10 gennaio 1939 lui e la famiglia approdarono in Francia, a Parigi, per poi andare nei Paesi Bassi nella città di Dordrecht, nell’Olanda meridionale. Il Bologna Calcio, la dirigenza, i giornalisti, i giocatori e i tifosi non mossero un dito in difesa del loro tecnico.
Weisz voleva fare ancora l’allenatore e trovò l’ingaggio con la locale squadra della massima serie olandese, il Football Club Dordrecht. Rimase sulla panchina per due stagioni conquistando la salvezza il primo anno ed il quinto posto l’anno successivo, la miglior posizione della storia del club biancoverde ancora ad oggi.                                            Nel frattempo, era in corso la Seconda guerra mondiale e i nazisti avevano in previsione di invadere la nemica Francia, la Germania iniziò il 10 maggio la campagna di Francia per invadere il Paese transalpino passando per Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi. Il 14 maggio la Germania invase i Paesi Bassi e i nazisti iniziarono le deportazioni dei cittadini ebrei nei campi di sterminio. Onde evitare problemi con la Gestapo, il Dordrecht Football Club decise di allontanarlo dalla guida tecnica, il 29 settembre 1941 venne non solo allontanato dal club, ma gli fu vietato anche di partecipare alle partite come spettatore.

La sua ultima destinazione è Auschwitz

Se la moglie Elena e i figli Roberto e Clara furono uccisi subito dopo essere arrivati a destinazione nelle camere a gas, Árpád invece rimase rinchiuso fino al 31 gennaio 1944, quando morì ad Auschwitz nello stesso modo. Aveva 48 anni. Era morto nella maniera più atroce e cattiva possibile uno dei migliori allenatori degli anni Trenta.
Nel dicembre 1944 i nazisti sapevano che avrebbero perso a breve la guerra e che l’Armata rossa avrebbe spinto verso ovest. Per questa ragione, Heinrich Himmler, il capo delle SS, ordinò di distruggere tutti i forni e tutti i documenti all”interno di tutti i campi di sterminio presenti nel Reich Il 17 gennaio ci fu l’evacuazione di Auschwitz e partì la “marcia della morte”, ovvero oltre 30 mila internati guidati dalle SS uscirono dai campi di concentramento e si diressero verso occidente, anche loro per non farsi trovare dal nemico.
Nel frattempo si distrusse il più possibile Auschwitz, in particolare i forni crematori, quei forni che riuscivano a cancellare fino a 4mila cadaveri in un giorno. Sino a quel giorno risultavano essere ad Auschwitz almeno 31mila persone. Si contò che ad Auschwitz morirono almeno 1,1 milioni di persone, la maggior parte provenienti da Ungheria, Polonia e Francia. Almeno 900 mila morirono nelle camere a gas e successivamente i loro corpi gettati nei forni, mentre altri 200 mila perirono per fame, malattia o fucilazioni o esperimenti.
Con l’istituzione della “Giornata della memoria” vennero alla luce tanti altri Árpád Weisz, persone morte con la sola colpa di essere ebrei, omosessuali, oppositori politici, zingari.
Per sessantacinque anni nessun seppe più nulla di Weisz e nessuno mosse un dito anche solo per scoprire che fine avessero fatto lui e la sua famiglia. Ancora oggi non si sa se il suo cadavere sia stato bruciato in un forno crematorio e seppellito in una fossa comune. Sicuramente morì con la consapevolezza che anche la moglie e i figli erano morti come stava morendo lui.

Dal 2009 qualcosa si mosse, trainate dall’uscita del libro di Marani, le squadre dove Árpád Weisz allenò affissero delle lapidi negli stadi “Meazza”, “dall’Ara” e “Piola”, gli impianti calcistici di Milano, Bologna e Novara. Nei pressi della torre Maratona dello stadio felsineo (la particolare torre posizionata dentro l’impianto bolognese) è stata posta una lapide in ricordo di Weisz nel gennaio 2009. Sempre a Bologna è nato un club, il “Club Internazionale Árpád Weisz”, un’associazione di ricordo del mitico allenatore di Solit, che ripudia razzismo e antisemitismo.
Non basta però affiggere una lapide per perdonare l’oblio di una persona, ma questo è stato un gesto importante in ricordo di un uomo dimenticato che ha scritto delle bellissime pagine di quel calcio che da qualche tempo era uscito dal pionierismo per diventare professionistico.
Weisz poteva lasciare il nostro Paese e scappare con la famiglia in Sudamerica, dove aveva svolto una sorta di apprendistato come allenatore prima di allenare l’Ambrosiana, ma non lo fece. Eppure era conscio della tragedia che avrebbe colpito la sua famiglia, o magari non riuscì ad immaginare che l’odio nazista sarebbe arrivato a tanto.
Rimane nell’immaginario collettivo la memoria di un allenatore preparato, vicino alla squadra, innovatore e precursore delle nuove tattiche calcistiche. E anche se con decenni di ritardo l’Italia gli ha tributato gli onori.
Purtroppo per troppi anni non si seppe nulla né di Árpád Weisz né della sua famiglia, ma da quando si scoprì la sua tragica fine, la sensibilità delle persone è stata toccata e molti si sono incuriositi nel conoscere le gesta di quell’allenatore che lasciò ricordi umani prima che calcistici.
Peccato che il povero Árpád Weisz i suoi tributi non li abbia ricevere, colpa dell’odio becero e animale di un’ideologia che ha portato alla morte 6 milioni di persone. In un tempo dove una partita di calcio aveva un significato politico e un mancato saluto diventava una sentenza di morte, passiamo alla storia di Matthias Sindelar, il più grande giocatore austriaco della storia, che indosserà una sola maglia a livello di club quella dell’Austria Vienna e il culmine è la vittoria della Mitropa Cup del 1927.

Il gioiello di un’Austria che non si arrende

Dal fisico asciutto, piuttosto gracile dalle ginocchia fragili, Sindelar è la punta di diamante del Wunderteam, la nazionale austriaca più forte della storia, una squadra che regalava momenti di grande calcio e lui era la star di quella squadra che sognava la conquista della Coppa del mondo nel 1938.

Il suo soprannome era “Cartavelina”, era uno dei primi giocolieri della storia del calcio in grado di far sparire e apparire la palla a piacimento e soprattutto di far deragliare tutti i difensori che si trovavamo sulla sua strada, ed era orgoglioso di rappresentare l’Austria. I giocatori austriaci vogliono vincere la coppa Rimet, disposti a tutto per arrivarci, ma successe qualcosa, quel qualcosa che molti austriaci temevano.

Hitler anch’egli di nascita austriaca annesse il paese natio al Terzo Reich, non esiste più L’Austria, non esiste più il Wunderteam, niente Coppa del mondo, e al Prater di Vienna nell’aprile di quell’anno si giocò per l’ultima volta Austria-Germania, una partita che doveva sancire l’unità tra le due nazioni e la nascita una grande Germania, così nelle idee degli uomini del Reich, una partita che doveva vedere la vittoria della Germania o al massimo un pareggio, ma che gli austriaci in segno di sfida vinsero per 2 a 0 con uno dei gol segnati dallo stesso Sindelar.  A termine della partita era previsto il saluto nazista di entrambe le squadre, ormai fuse in un’unica nazione per vincere il Mondiale di quell’anno, ma la stella dell’Austria Vienna non saluterà e si rifiuterà di giocare la Coppa del mondo con la nazionale tedesca, rimarcando più di una volta di essere un austriaco.

Il rischio altissimo di contravvenire

Sapeva il rischio altissimo, sapeva che non avrebbe avuto vita facile dopo quel giorno, orgogliosamente non scappò, rimase nella sua città, tra la sua gente che prima lo osannava e che adesso era pronto a tradirlo, e qualche mese dopo nel gennaio 1939 venne trovato privo di vita in un appartamento in compagnia della sua donna.

La polizia chiuse frettolosamente le indagini, ma in molti anni dopo ammisero che i gerarchi tedeschi avevano impartito l’ordine di avvelenarlo.                                                             Senza dubbio è difficile raccontare la verità quando la storia viene intralciata dalla leggenda, vittime dell’odio, nonostante tutto il male, sono andati contro un destino inesorabile e già segnato, due eroi che travalicano dallo sport e che la storia dovrebbe onorare più di quanto si sia fatto.